Kalusha Bwalya, Seoul 1988

Kalusha è piccolo, veloce, prende a calci il mondo.
A difendere i pali della porta avversaria c'è Tacconi, che ha parato e vinto tutto e che un giorno ha si è preso anche la luna.
A Seul a settembre fa caldo, afoso, quel caldo che ti si appiccica affido e ti toglie il fiato. Le Olimpiadi però sono le Olimpiadi, tanto più che sono le prime dopo due edizioni "monche", piegate dai boicottaggi politici di quel mondo diviso a blocchi, prive delle nazioni più forti.
Il CIO trasloca in Corea del Sud, avamposto delle prime Olimpiadi finalmente libere, Estremo Oriente che sa di Occidente. Sono anche le Olimpiadi della grande sfida fra gli uomini più veloci del mondo, l'americano Carl Lewis e il canadese Ben Johnson, campione del mondo in carica. Sarà la gara dei 100 metri più seguita, con la sveglia alle tre del mattino per il fuso orario; sarà un lampo di illusioni lungo nove secondi. Trionfa Ben Johnson che cadrà rovinosamente due giorni dopo vittima del doping.
È l'Olimpiade anche del calcio dai grandi nomi, vere e proprie nazionali B, tutte coi favori del pronostico a scapito delle sconosciute nazionali africane e orientali.
Una nazionale grandi firme, guidate nelle qualificazioni dal totem azzurro Zoff (che lascia prima dei Giochi, attratto dalla panchina juventina) e ora dal vecchio cuore giallorosso "Kawasaki" Rocca, tecnico federale.
I nomi sono i migliori fra quelli che, da regolamento, non hanno mai vestito la maglia della nazionale maggiore in un Campionato del Mondo; ci sono il miglior portiere italiano al pari di Zenga, lo juventino Tacconi, il bomber sardo del Milan Virdis, il romanista Desideri, un giovane Ciro Ferrara, fra gli altri. Giocatori con testa e piedi buoni. 
Il girone è alla portata degli azzurri: Guatemala, Zambia ed Iraq.
Si parte con una goleada al Guatemala, titoloni e speranze. Almeno nel girone pare non esserci storia, la seconda gara con lo Zambia per tutti è la gara che sancirà la qualificazione matematica degli azzurri.
Lo Zambia, maglia arancione, le tre strisce nere dell'Adidas sembrano un vezzo pelle scura come la notte, poi?
Pochi giocatori conosciuti, due su tutti, omonimi per altro: Johnson e Kalusha Bwalya. Giocano in Belgio, Europa del Nord, clima freddo, palloni che quasi inspiegabilmente finiscono in rete.
A Seul gli africani esordiscono con un pareggio contro gli iracheni, per noi l'incontro del 19 settembre a Gwangiu sembra davvero il trampolino di lancio verso una medaglia.
Lo stadio Mu Dung è un catino grandi spazi bollente, nel vero senso della parola. Il caldo è opprimente, umido, incolla, strozza il respiro.
Si inizia ma gli indizi dei primi minuti non lasciano presagire nulla di buono per gli azzurri.
Il sole brucia sulla pelle, gli azzurri faticano e sbagliano i cross, sbagliano la mira. E lo Zambia? Lo Zambia corre, scatta, sono leopardi e lo stadio una savana. Kalusha Bwalya è il top player anche se l'Italia non lo sa. Lui gioca nel Cercle Bruges, lui segna e fa segnare. 
Nasce a Mufulira il 16 agosto 1963. A vent'anni esordisce con laaglia arancione del suo paese. E segna. Corre, è un attaccante veloce, veloce a buttarsi nella mischia. Dribblare Ng, controllo e tiro libero rendono un'ottima seconda punta. In Belgio, a Bruges, ne hanno fatto un idoloe lui ripaga nel freddo che punge del paese. Corre anche per fuggire al freddo. A Gwangiu entra nell'aria calda del catino fin dai primissimi minuti dell'incontro. I Ferrara, i Tassotti e i Pellegrini (tricolori e coppe europee rispettivamente con le maglie di Napoli e Juventus, Milan e Sampdoria) faticano a trattenere il leopardo zambiese. Sono Kalusha ed altri dieci leopardi, veloci, indemoniati. A tenere in partita gli azzurri ci pensa Tacconi che parla più che può, lui che ha parato anche la luna.
Dura quaranta minuti la partita.
Al quarantesimo nel forno di Gwangiu scatta nuovamente Musonda, che sta rizzollando il campo dal primo minuto, punta la porta azzurra quasi senza guardare, annusando quasi l'aria. Lascia partire il cross sicuro, sa che la palla finirà nei piedi di Kalusha. All'intervallo gli azzurri hanno bisogno di respirare, sono in svantaggio.
La ripresa sembra iniziare meglio per gli azzurri, più compatti, ma il caldo sud coreano e la foga zambiese hanno il sopravvento. Al minuto 55 brutto fallo al limite dell'area, sul vertice sinistro dell'area di rigore, di Ferrara. Tacconi dispone la barriera, sulla palla solo due maglie arancioni.
C'è Kalusha che osserva l'avversario leggermente fuori dai palchi. Pensa veloce come un leopardo, ricorda un gol simile in Belgio, l'urlo di gioia dei suoi tifosi e al fischio dell'arbitro lascia partire il tiro. La palla passa sopra la barriera, sopra lo sguardo di Tacconi, finisce in rete. 2-0.
L'Italia sparisce dai radar dell'incontro, lascia spazio agli africani. Che sono indemoniati, che vivono il caldo come un elemento naturale, familiare. Dribblano e palleggiano e gli azzurri spariscono. Gli africani in maglia arancione (il colore ufficiale rimane però il verde) trovano il tris con un tiro dalla distanza dell'altro Bwalya, Johnson, leggermente deviato da Pellegrini. Tacconi assiste impassibile alla disfatta. Kalusha sa che questa sarà per sempre la sua partita e qualche minuto dopo calerà anche il poker.
Per l'Italia una disfatta epica, indelebile.
Indelebile anche per Kalusha: tripletta e Zambia che supera il girone. Vincerà 4-0 anche contro il Guatemala e sarà primo davanti l'Italia che si riprende leggermente e supera l'Iraq.
Il Cercle Bruges sa di avere fra le mani un campione in rampa di lancio, lo sa anche Kalusha che continua a segnare. Il sogno olimpico africano si ferma ai quarti contro una delle ultime versioni della Germania Ovest, ironia della sorte con il punteggio di 4-0 per i teutonici. E Bwalya?
Bwalya diventa unicon, il simbolo degli africani. Proprio alla fine dell'Olimpiade cambia club, addirittura paese, sempre nel nord Europa: Olanda fra le file dei biancorossi del Psv di Eindhoven, squadra all'epoca protagonista in Olanda ed in Europa. E segna e corre, corre sui campi fangosi come quel pomeriggio a Gwangiu che lo stadio era un forno.
Segna, vince, indossa la maglia della sua nazione con l'intento di andare ai mondiali negli Usa, nel 1994. 
Se al Psv le cose vanno bene altrettanto non si può dire delle qualificazioni al mondiale americano (la nazionale arancio verde non si qualificherà); nonostante non manchi l'impegno sono pochi gli zambiesi che giocano in Europa e nel Continente Nero l'effetto sorpresa fatale agli azzurri non c'è.
Il pass per gli Stati Uniti passa anche per l'incontro in Senegal contro i Leoni di Dakar il 28 aprile 1993.
Kalusha, il fratello Joel, l'omonimo Johnson e Musonda raggiungeranno i compagni direttamente a Dakar dall'Europa dove giocano.
Il 27 aprile un cargo militare con a bordo staff e giocatori dello Zambia decolla da Libreville, Gabon, diretto a Dakar.
In Senegal non arriverà mai nessuno dei componenti di quella nazionale; il vecchio cargo Buffalo si inabissa al largo del Gabon non lasciando scampo a passeggeri ed equipaggio.
Kalusha sopravvive con la forza del 19 settembre 1988, quella in cui ha domato l'Italia.
Non riuscirà a riportare su un palcoscenico mondiale la sua nazionale ma per due volte, 1994 e 1996 arriverà all'atto finale della Coppa d'Africa (rispettivamente secondo e terzo posto).
Poi con il pallone fra i piedi e il ricordo di quel viaggio rimandato all'ultimo riprende il suo giro del mondo: Messico e Golfo Persico prima di chiudere con il calcio, coi ricordi più dolci e più amari. 
Il piccolo Kalusha non corre più da un po' ma per la Fifa lavora per sviluppare lo sport in ambito sociale nella sua Africa, il continente che gli ha regalato il dolore più grande.

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