Nina vive a Minsk da quando Minsk faceva parte dell'Orso Sovietico, quello stato così immenso da avere all'interno dei suoi confini undici fusi orari diversi.
Quello stato enorme si chiamava Urss, influenzava la vita politica ed economica dell'altra parte del mondo, quello che non appoggiava il colosso a stelle e strisce americano. Ufficialmente l'Orso Sovietico ha cessato di esistere il giorno di Santo Stefano, 26 dicembre, del 1991 sotto la spinta dell'unico segretario di partito, il potente Pcus guidato da un altrettanto potente Soviet, capace di intuire che l'Unione Sovietica così com'era uscita dalla Seconda Guerra mondiale non poteva più esistere né competere col gigante americano, Michail Gorbacev.
E gli sterminati confini sovietici e l'etere occidentale furono invasi da parole nuove, sconosciute ai più, spesso fraintese al punto di dare vita a numeri di satira politica negli spettacoli delle TV europee.
Le parole erano Perestrojka e Glasnost e oggi sono forse le parole che più hanno caratterizzato la fine degli anni '80 del secolo scorso.
Significano rispettivamente ricostruzione e trasparenza, perché quello che aveva intuito il signor Gorbaciov era che il mondo, quel mondo che si preparava agli anni '90, doveva affrancarsi da Cortine di Ferro e Muri.
Non fu di facile attuazione ma il mondo così com'era, diviso nei due blocchi Usa-Urss si sgretolò come i pannelli in cemento del Muro di Berlino, non senza pagare pegno a questa rivoluzione apparentemente morbida.
Nina nel 1991 cresce i suoi figli nella Minsk russa, in un quartiere colorato col grigio dei palazzoni a marchio sovietico. Ha 44 anni, fa anche l'operaia come tante sue coetanee, catalogate dai piani quinquennali di sviluppo economico programmati dal Pcus.
Minsk è circondata dai boschi e palazzi alti e grigi e in quasi ognuno di essi c'è una fonte del KGB, la polizia segreta russa, che osserva, ascolta, annota e confida.
Nina lo sa, lo sanno anche gli altri che sono in strada con lei.
La Bielorussia era territorio polacco prima dell'invasione nazista della Polonia. L'annessione forzata e a tavolino passò in secondo piano rispetto alla ferocia della furia nazista che si stava abbattendo sull'Europa.
Ferocia che ha messo a tacere per anni un altro tipo di ferocia, persa negli sterminati confini e fusi orari dello stato sovietico.
A Minsk lo hanno sempre saputo tutti, anche i bambini. Parole, nomi, dettagli detti qua e là. Niente però poteva essere divulgato pubblicamente.
Nina lo sa, come lei tanti.
Sono ferite che vengono curate dai padri col silenzio, quello che avvolge i boschi di Minsk.
L'unico modo per parlarne è protestare, unirsi alla protesta.
Nina rientra dopo il lavoro, saluta figli e marito e inizia a pensare, seria.
È di corporatura minuta, piccola, coi capelli corti e gli occhiali rotondi. Non sembra bielorussa, non sembra una madre, ma lei è entrambe le cose.
Nel 1988 inizia la sua protesta, si unisce ai cortei che a Minsk non smetteranno mai, neanche nel secolo nuovo.
L'inizio fu il bosco di Kurapaty, poi una volta rimasti soli all'interno dei confini della nuova Bielorussia, fu contro il potere centrale, così nostalgico dei tempi russi da ripristinare quel modello socio-politico con tanto di polizia segreta a fare man bassa dei diritti civili.
Nina non vuole che le purghe staliniane degli anni della Guerra vengano soffocate da una autostrada, da centri commerciali, e tanti come lei si chiedono perché questo potere così fili sovietico voglia costruire luoghi così occidentali se a fatica nelle loro case sfamano le famiglie.
Da Kurapaty furono passati per le armi migliaia di bielorussi invisi al potere di Mosca, messi a tacere nel silenzio dei boschi.
Per Nina piantare quelle croci di legno è in buon motivo per unirsi a quei cortei di protesta.
Non c'è violenza nei manifestanti, solo voglia di verità.
I figli sono cresciuti e hanno intrapreso il loro cammino nella Bielorussia che a fatica entra nel nuovo secolo. Il signor Gorbacev ha lasciato spazio ad eredi che hanno dapprima illuso il mondo poi hanno saputo riportare il terrore negli stati indipendenti sorti dopo la fine dell'Unione Sovietica, come se il ritorno agli anni bui fosse l'unico rimedio.
A cosa? A non perdere il potere.
Nina ascolta alla TV le dichiarazioni del presidente Lukashenko che parla alla nazione come se il mondo fosse ancora racchiuso nei confini sterminati dell'Orso Sovietico.
Non accenna mai alle proteste che puntualmente a Minsk, nella capitale si svolgono, non accenna mai alla richiesta del riconoscimento dell'eccidio nel bosco di Kurapaty.
Lukashenko governava sotto l'ala protettrice il Soviet bielorusso e ora governa il nuovo stato guidato ora dalla mano russa.
È un dittatore che poche nazioni seguono e riconoscono.
Nina e le altre lo sanno.
Protestano, si organizzano col passaparola che internet a Minsk e dintorni non è libero, nulla in questo stato è libero.
Nulla se non le farneticazioni del presidente.
Nina parla al telefono coi nipoti, è una babushka, una nonna ora ma continua a protestare. A lei non importa se si tratta di Kurapaty, di brogli elettorali, a Nina e alle altre importa dare voce e visibilità alla Bielorussia più vera e onesta.
Ogni tanto la fermano, controllano e rilasciano, ma Nina non si spaventa, anche se l'Nkvd è un'ombra continua vicino a loro, alla vita di Nina e le altre.
Che sono anche giovani, mogli di blogger arrestati, giornaliste ma sono costrette a scappare all'estero pur di continuare a vivere.
Nina no, rimane e continua ad incitare.
Non ha paura, lo fa dal 1988, anche per i suoi nipoti ora che è bisnonna.
Lukashenko ha disegnato un paese a suo piacimento, totalmente dipendente dalla Russia ora dell'ex spia Putin. Non ci sono margini di aperture alle libertà, a nessuna libertà.
La risposta alle proteste è sempre la stessa: carri armati, filo spinato, passamontagna scuri. E arresti, indiscriminati, non importa il sesso dell'arrestato.
Nina lo sa.
Lukashenko ha abolito i segni distintivi della Bielorussia libera e imposto vessilli, sigle della vecchia Unione Sovietica, cui guarda con nostalgia maligna.
Anche la vecchia bandiera bianca e rossa è vista come oltraggio al dittatore prima ancora che alla nazione.
Le proteste urlate a gran voce dalle opposizioni chiamano nelle piazze migliaia di persone, cittadini stanchi. Le voci si alzano dalle fabbriche per arrivare nelle piazze e nei palazzi del potere.
Tornano a sventolare le bandiere bianche e rosse, le donne le oppositrici politiche al regime come Svetlana Tikhanovskaja, costretta a riparare in Lituania e Maria Kolesnikova, fermata poi al confine con l'Ukraina.
Rimane sulle piazze Nina, con la bandiera bianca e rossa e i mazzi di fiori in mano.
Rimane al suo posto anche quando i mezzi blindati le appaiono davanti o quando soldati col passamontagna nero la strattonano per strappare la bandiera incriminata.
Nina non ha paura, ora lo fa per i nipoti.
Il dittatore forse ha paura, accusa chi protesta di credere ad una nonna che non sa cosa fare ma "la voce del padrone" cade nel vuoto. Le piazze anche a fine estate del 2020 sono piene di fiori, di bandiere bianche e rosse, di voglia di libertà.
Anche quando una domenica di settembre un soldato strattona malamente Nina e l'arresta nuovamente.
Ma Nina è forte, lo ha detto al marito, ai figli e ai nipoti che comunque vada sarà libera come vorrebbe fosse finalmente la Bielorussia.
Nina e le altre.
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