Ci sono gare sportive che più di altre diventano miti per la bellezza della loro difficoltà, per la durezza di percorsi o circuiti, corse o incontri capaci di rimanere impresse nella storia, aldilà di chi vince o perde.
Notoriamente chi vince dopo enormi sforzi, fisici e mentali, è l'eroe che più di tutti viene ricordato. La vittoria e la sconfitta nel contesto di sofferenza è quella che più rimane impressa nella testa del tifoso.
Gli sport di squadra hanno riempito libri con episodi del genere.
Basti pensare all'icona quasi pop che è diventata la partita ai Mondiali del Messico 1970, Italia-Germania Ovest quattroatre.
Ma se un team che soffre, vince o perde lo fa sempre unito, ci sono sport individuali che regalo eroi, icone solitarie che nutrono la passione di milioni di appassionati; ciclismo, atletica leggera, sport motoristici.
E fra questi ultimi sul finire del secolo scorso c'è una corsa, un rally motoristico, che ha regalato campioni ed eroi, purtroppo nel senso più ampio del termine, a chiunque avesse avuto solo voglia di guardare una singola tappa.
È la Parigi-Dakar, il Rally più massacrante, per tutti i tipi di mezzi a motore, dalle due ruote delle motociclette alle quattro di auto e camion.
Non è mai stato Rally morbido, per tutti. La prima parte della corsa inizia da Parigi appunto, e arriva in Spagna, da dove poi la comitiva viene trasferita in Africa.
È la folle idea di un pilota di rally transalpino, Thierry Sabine. La competizione rallystica inizia il 26/12/1978. Da quel giorno in poi i rally di enduro, nei deserti, cresceranno esponenzialmente di fama, di tifo, di riscontro sui media.
Non sarà mai una competizione indolore.
Per tanti motivi.
Attraversa le zone più povere del mondo, dune sabbiose imponenti, tempeste di sabbia, villaggi di capanne all'improvviso sul tracciato, zone di guerra, crisi diplomatiche.
La Parigi - Dakar pagherà un altissimo contributo di vite, fra i partecipanti e chi ne vive il contorno. Anche il suo padre fondatore non ne sarà immune: il 14/1/1986 sorvolando in elicottero il deserto del Ténéré nel Mali Sabine precipita a terra legandosi, lui e gli altri componenti della comitiva, per sempre alla sabbia della Dakar.
È indubbiamente una corsa affascinante, più per gli europei che per gli americani, ma in breve diventa La Corsa per tutti gli appassionati di rally di enduro.
E genera campioni motoristici, atleti che diventano icone. Sovrani.
Ci sono Re, riconosciuti tali dal loro popolo, che non indossano corone, non portano sulle spalle ermellini e non cavalcano bianchi destrieri.
Sono Re che indossano tute ignifughe e caschi, sporchi, con sabbia e fango sulle visiere. Hanno inevitabilmente cicatrici sulle ossa e scarponi bucati, lisi.
Cavalcano grosse moto monocilindriche che ogni tanto scartano male, impattano su buche o sassi e li disarcionano.
Sono Re con la gobba a rendere un po'più sicura la caduta. Ogni tanto, il fato ha un ruolo importante nel destino di un Re.
E c'è un Re nato in Italia, in Toscana il 31/12/1957, che parte da lontano per conquistare la sabbia dei deserti.
Fabrizio coltiva da subito la passione per le due ruote da enduro. Sono le passioni che nascono dentro di noi e non vanno più via.
Succede questo anche a Fabrizio che nei primi anni settanta si mette in sella, diciassettenne, alle prime moto da enduro. Non gli importa la cilindrata, 50 cm cubici o 125 cm cubici fa lo stesso. Importante è l'odore della benzina, le candele che si arroventano, le chiazze scure d'olio.
Importante per Fabrizio è aprire il gas, stringere il manubrio, fare forza, alzarsi sui pedali e con la spinta del piede accendere il motore.
Vuole correre, non sa ancora se diventerà Re o meno, sa che la sua Ancillotti, la sua Beta o Swm lo porterà a gareggiare.
Studia ingegneria Fabrizio, è un tutt'uno con la sua passione. Cambia cilindrate e moto. In sella ad una Fanatic Motor vince il campionato italiano 125. La strada ha iniziato il suo percorso.
Fabrizio spiega a casa cosa prova seduto su una sella, con l'odore acre di benzina, miscela e olio. Lo spiega e decide.
Lascia gli studi e cambia cilindrata e categoria. Ora è senior, con una Ancillotti 250. La decisione non è sbagliata; Fabrizio capisce di motori, di viti, cilindri e ammortizzatori. Non ha paura di sporcarsi per l'assetto migliore. Diventa anche nazionale di enduro e dopo lo stop imposto dal servizio di leva ritorna in sella ad una Swm su due cilindrate diverse: 175 e 350. Ormai è in pilota a tutto tondo, non gli importa quanto grande sia il motore, sa che deve continuare. Pensa Fabrizio e pensa al domani. Con un amico apre un negozio che è anche officina, ovviamente per le due ruote.
Dalle colline toscane, dopo un nuovo titolo italiano Fabrizio vuole provare i grandi rally, quelli più duri, fatti di rocce, sabbia e deserti, di sole rovente e gelo notturno.
Siamo alla fine degli anni ottanta, Fabrizio è anche un uomo, si sposa con la sua Elena e salta in sella all'austriaca Ktm diretto in Perù, rally degli Incas. L'esordio è per sondare il terreno, sentire come è fatto il terreno, che grana può avere la sabbia andina.
Aumenta la cilindrata a 500 cm cubici; servono braccia forti a tenere la moto ora, gambe forti per portare la moto stando in piedi e la schiena diritta.
In Perù nel 1990 arriva la prima vittoria dopo una caduta al rally di Tunisia.
Fabrizio sorvola l'Oceano da vincitore. Ora ha capito.
Può diventare un Re del deserto ma per farlo deve conquistare ancora un deserto, quello africano. Fabrizio studia la moto, sempre Ktm, e prepara l'esordio alla Parigi-Dakar, la più temibile. Fabrizio lo sa, non può non saperlo.
È una passione, la sua. Fra quelle dune imponenti può diventare Re.
Il dazio da pagare è un polso rotto dopo una caduta l'anno dell'esordio. Fabrizio corre ancora, ci riprova anche se i guasti tecnici del motore austriaco lo tengono lontano dalla vittoria.
A Castiglione Fiorentino Fabrizio ha una città che tifa per lui, ha due figli che lo aspettano, Gioele e Chiara.
L'Africa compie il suo lavoro ed entra nella testa e nel cuore di Fabrizio.
Dopo un breve allontanamento dalla Ktm, in cui comunque vince il rally di Tunisia e quello dei Faraoni in Egitto, Fabrizio torna alla casa austriaca.
Gli manca un rally per essere Re, un po'più Re di quanto non lo sia ora. Il decennio di fine secolo ha creato le basi per conquistare la Dakar, cosa che avviene con la doppietta 2001/2002, in sella a Ktm.
Ormai i deserti conoscono Fabrizio, l'Africa lo stima. Vince, non solo in sella al suo cavallo. Per peculiarità di questi rally la povertà, i problemi di un continente vengono toccati con mano. Fabrizio che è marito e padre sfreccia fra villaggi e capanne ma osserva e memorizza.
Rientra in Italia e crea una Onlus che costruisce scuole in Senegal, paese di Dakar. Sa che la scolarizzazione è il grimaldello che apre tutte le porte. E sa quanto ha fatto l'Africa per lui.
Prima dell'ultima Parigi-Dakar Fabrizio conquista nuovamente il rally di Tunisia.
Fabrizio ha deciso; quella del 2005 sarà la sua ultima gara.
È un Re stimato dal mondo dei motori e non solo, è un Re stimato e conosciuto. Prepara al meglio la sua Ktm per l'ultima cavalcata nel deserto, il suo deserto.
La tappa attraversa la martoriata Mauritania. Fabrizio studia il percorso sulla mappa ben fissata sul serbatoio. È un Re vestito di blu, come il cielo.
Da gas girando i polsi già provati da vecchie cadute e arriva sulle cime delle dune. E poi giù tenendo la moto di lato per non sbilanciarsi in avanti e rotolare. Corre Fabrizio, è il suo ultimo vengo africano, l'ultima volta che la visiera del casco si sporca di sabbia. E dopo le dune, lo sterrato con le rocce appuntite che sbucano dal terreno a separare capanne di fango e sterco secco.
Corre Fabrizio, chilometro dopo chilometro. 184 km.
Fra Atar e Kiffa l'Africa disarciona il suo Re. Una roccia all'improvviso si mette di traverso alla moto di Fabrizio.
Non è un volo spettacolare, non ci sono bambini dei villaggi ad osservare.
Solo il deserto e la terra.
Fabrizio cade, si stende sul lato destro, mettendosi in posa quasi fetale.
Per rispetto al suo deserto non toglie il casco, si stende. Sente appena il motore della moto spegnersi.
Ora può chiudere gli occhi e dormire anche lui.
L'Africa si è dimostrata invidiosa del suo Re, possente e venuto da lontano. Lo ha disarcionato per accoglierlo.
Fabrizio ha rotto due vertebre cervicali, un infortunio gravissimo che nelle condizioni complicate della Parigi-Dakar diventa letale. I soccorsi non sono stati immediati, non è possibile in un territorio così ampio.
Il cuore di Fabrizio non ha retto; un arresto cardiaco ha fermato l'ultima corsa del Re quasi che il deserto non volesse più lasciarlo andare via.
Fabrizio Meoni è diventato parte della sua corsa, come Thierry Sabine prima di lui.
Fabrizio Meoni però vive ancora lungo il percorso della vecchia gara ( di Parigi-Dakar è rimasto solo il nome; la geopolitica, la sicurezza l'hanno trasferita per ironia della sorte nei deserti andini, l'altra casa di Fabrizio) con l'aiuto tangibile che l'Onlus a suo nome porta a chi ha bisogno.
Fabrizio Meoni vive anche nel nome del figlio Gioele impegnato a sviluppare sistemi di sicurezza per gli sport più estremi.
Il Re dorme sereno fra la sabbia del suo deserto.
Notoriamente chi vince dopo enormi sforzi, fisici e mentali, è l'eroe che più di tutti viene ricordato. La vittoria e la sconfitta nel contesto di sofferenza è quella che più rimane impressa nella testa del tifoso.
Gli sport di squadra hanno riempito libri con episodi del genere.
Basti pensare all'icona quasi pop che è diventata la partita ai Mondiali del Messico 1970, Italia-Germania Ovest quattroatre.
Ma se un team che soffre, vince o perde lo fa sempre unito, ci sono sport individuali che regalo eroi, icone solitarie che nutrono la passione di milioni di appassionati; ciclismo, atletica leggera, sport motoristici.
E fra questi ultimi sul finire del secolo scorso c'è una corsa, un rally motoristico, che ha regalato campioni ed eroi, purtroppo nel senso più ampio del termine, a chiunque avesse avuto solo voglia di guardare una singola tappa.
È la Parigi-Dakar, il Rally più massacrante, per tutti i tipi di mezzi a motore, dalle due ruote delle motociclette alle quattro di auto e camion.
Non è mai stato Rally morbido, per tutti. La prima parte della corsa inizia da Parigi appunto, e arriva in Spagna, da dove poi la comitiva viene trasferita in Africa.
È la folle idea di un pilota di rally transalpino, Thierry Sabine. La competizione rallystica inizia il 26/12/1978. Da quel giorno in poi i rally di enduro, nei deserti, cresceranno esponenzialmente di fama, di tifo, di riscontro sui media.
Non sarà mai una competizione indolore.
Per tanti motivi.
Attraversa le zone più povere del mondo, dune sabbiose imponenti, tempeste di sabbia, villaggi di capanne all'improvviso sul tracciato, zone di guerra, crisi diplomatiche.
La Parigi - Dakar pagherà un altissimo contributo di vite, fra i partecipanti e chi ne vive il contorno. Anche il suo padre fondatore non ne sarà immune: il 14/1/1986 sorvolando in elicottero il deserto del Ténéré nel Mali Sabine precipita a terra legandosi, lui e gli altri componenti della comitiva, per sempre alla sabbia della Dakar.
È indubbiamente una corsa affascinante, più per gli europei che per gli americani, ma in breve diventa La Corsa per tutti gli appassionati di rally di enduro.
E genera campioni motoristici, atleti che diventano icone. Sovrani.
Ci sono Re, riconosciuti tali dal loro popolo, che non indossano corone, non portano sulle spalle ermellini e non cavalcano bianchi destrieri.
Sono Re che indossano tute ignifughe e caschi, sporchi, con sabbia e fango sulle visiere. Hanno inevitabilmente cicatrici sulle ossa e scarponi bucati, lisi.
Cavalcano grosse moto monocilindriche che ogni tanto scartano male, impattano su buche o sassi e li disarcionano.
Sono Re con la gobba a rendere un po'più sicura la caduta. Ogni tanto, il fato ha un ruolo importante nel destino di un Re.
E c'è un Re nato in Italia, in Toscana il 31/12/1957, che parte da lontano per conquistare la sabbia dei deserti.
Fabrizio coltiva da subito la passione per le due ruote da enduro. Sono le passioni che nascono dentro di noi e non vanno più via.
Succede questo anche a Fabrizio che nei primi anni settanta si mette in sella, diciassettenne, alle prime moto da enduro. Non gli importa la cilindrata, 50 cm cubici o 125 cm cubici fa lo stesso. Importante è l'odore della benzina, le candele che si arroventano, le chiazze scure d'olio.
Importante per Fabrizio è aprire il gas, stringere il manubrio, fare forza, alzarsi sui pedali e con la spinta del piede accendere il motore.
Vuole correre, non sa ancora se diventerà Re o meno, sa che la sua Ancillotti, la sua Beta o Swm lo porterà a gareggiare.
Studia ingegneria Fabrizio, è un tutt'uno con la sua passione. Cambia cilindrate e moto. In sella ad una Fanatic Motor vince il campionato italiano 125. La strada ha iniziato il suo percorso.
Fabrizio spiega a casa cosa prova seduto su una sella, con l'odore acre di benzina, miscela e olio. Lo spiega e decide.
Lascia gli studi e cambia cilindrata e categoria. Ora è senior, con una Ancillotti 250. La decisione non è sbagliata; Fabrizio capisce di motori, di viti, cilindri e ammortizzatori. Non ha paura di sporcarsi per l'assetto migliore. Diventa anche nazionale di enduro e dopo lo stop imposto dal servizio di leva ritorna in sella ad una Swm su due cilindrate diverse: 175 e 350. Ormai è in pilota a tutto tondo, non gli importa quanto grande sia il motore, sa che deve continuare. Pensa Fabrizio e pensa al domani. Con un amico apre un negozio che è anche officina, ovviamente per le due ruote.
Dalle colline toscane, dopo un nuovo titolo italiano Fabrizio vuole provare i grandi rally, quelli più duri, fatti di rocce, sabbia e deserti, di sole rovente e gelo notturno.
Siamo alla fine degli anni ottanta, Fabrizio è anche un uomo, si sposa con la sua Elena e salta in sella all'austriaca Ktm diretto in Perù, rally degli Incas. L'esordio è per sondare il terreno, sentire come è fatto il terreno, che grana può avere la sabbia andina.
Aumenta la cilindrata a 500 cm cubici; servono braccia forti a tenere la moto ora, gambe forti per portare la moto stando in piedi e la schiena diritta.
In Perù nel 1990 arriva la prima vittoria dopo una caduta al rally di Tunisia.
Fabrizio sorvola l'Oceano da vincitore. Ora ha capito.
Può diventare un Re del deserto ma per farlo deve conquistare ancora un deserto, quello africano. Fabrizio studia la moto, sempre Ktm, e prepara l'esordio alla Parigi-Dakar, la più temibile. Fabrizio lo sa, non può non saperlo.
È una passione, la sua. Fra quelle dune imponenti può diventare Re.
Il dazio da pagare è un polso rotto dopo una caduta l'anno dell'esordio. Fabrizio corre ancora, ci riprova anche se i guasti tecnici del motore austriaco lo tengono lontano dalla vittoria.
A Castiglione Fiorentino Fabrizio ha una città che tifa per lui, ha due figli che lo aspettano, Gioele e Chiara.
L'Africa compie il suo lavoro ed entra nella testa e nel cuore di Fabrizio.
Dopo un breve allontanamento dalla Ktm, in cui comunque vince il rally di Tunisia e quello dei Faraoni in Egitto, Fabrizio torna alla casa austriaca.
Gli manca un rally per essere Re, un po'più Re di quanto non lo sia ora. Il decennio di fine secolo ha creato le basi per conquistare la Dakar, cosa che avviene con la doppietta 2001/2002, in sella a Ktm.
Ormai i deserti conoscono Fabrizio, l'Africa lo stima. Vince, non solo in sella al suo cavallo. Per peculiarità di questi rally la povertà, i problemi di un continente vengono toccati con mano. Fabrizio che è marito e padre sfreccia fra villaggi e capanne ma osserva e memorizza.
Rientra in Italia e crea una Onlus che costruisce scuole in Senegal, paese di Dakar. Sa che la scolarizzazione è il grimaldello che apre tutte le porte. E sa quanto ha fatto l'Africa per lui.
Prima dell'ultima Parigi-Dakar Fabrizio conquista nuovamente il rally di Tunisia.
Fabrizio ha deciso; quella del 2005 sarà la sua ultima gara.
È un Re stimato dal mondo dei motori e non solo, è un Re stimato e conosciuto. Prepara al meglio la sua Ktm per l'ultima cavalcata nel deserto, il suo deserto.
La tappa attraversa la martoriata Mauritania. Fabrizio studia il percorso sulla mappa ben fissata sul serbatoio. È un Re vestito di blu, come il cielo.
Da gas girando i polsi già provati da vecchie cadute e arriva sulle cime delle dune. E poi giù tenendo la moto di lato per non sbilanciarsi in avanti e rotolare. Corre Fabrizio, è il suo ultimo vengo africano, l'ultima volta che la visiera del casco si sporca di sabbia. E dopo le dune, lo sterrato con le rocce appuntite che sbucano dal terreno a separare capanne di fango e sterco secco.
Corre Fabrizio, chilometro dopo chilometro. 184 km.
Fra Atar e Kiffa l'Africa disarciona il suo Re. Una roccia all'improvviso si mette di traverso alla moto di Fabrizio.
Non è un volo spettacolare, non ci sono bambini dei villaggi ad osservare.
Solo il deserto e la terra.
Fabrizio cade, si stende sul lato destro, mettendosi in posa quasi fetale.
Per rispetto al suo deserto non toglie il casco, si stende. Sente appena il motore della moto spegnersi.
Ora può chiudere gli occhi e dormire anche lui.
L'Africa si è dimostrata invidiosa del suo Re, possente e venuto da lontano. Lo ha disarcionato per accoglierlo.
Fabrizio ha rotto due vertebre cervicali, un infortunio gravissimo che nelle condizioni complicate della Parigi-Dakar diventa letale. I soccorsi non sono stati immediati, non è possibile in un territorio così ampio.
Il cuore di Fabrizio non ha retto; un arresto cardiaco ha fermato l'ultima corsa del Re quasi che il deserto non volesse più lasciarlo andare via.
Fabrizio Meoni è diventato parte della sua corsa, come Thierry Sabine prima di lui.
Fabrizio Meoni però vive ancora lungo il percorso della vecchia gara ( di Parigi-Dakar è rimasto solo il nome; la geopolitica, la sicurezza l'hanno trasferita per ironia della sorte nei deserti andini, l'altra casa di Fabrizio) con l'aiuto tangibile che l'Onlus a suo nome porta a chi ha bisogno.
Fabrizio Meoni vive anche nel nome del figlio Gioele impegnato a sviluppare sistemi di sicurezza per gli sport più estremi.
Il Re dorme sereno fra la sabbia del suo deserto.
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