Rientro di corsa al mio paese, sempre più immerso nell'ovatta calda dell'afa estiva e della Cartiera silenziosa, giustamente in ferie.
Rientro a casa del mio papà, nel weekend del Redentore, festa di tutte le feste per la Serenissima.
È una festa che di prepotenza mi riporta agli anni della mia infanzia, a casa con la mamma, quando la malattia le permetteva ancora di stare ore a cucinare per interi plotoni, anche se a casa eravamo solo in quattro.
Bestemmiando i santi di più calendari sul sito di Trenitalia per assicurarmi almeno un posto a sedere fino al paese e un po'di aria condizionata, mi ero accorto che il weekend che mi interessava era quello del Redentore.
Festa come detto, tutta di Venezia, non Città Metropolitana come intesa ora ma Repubblica Marinara, ma che a me ricorda tanto i pochi ma sicuri, anno dopo anno, momenti di festa con i miei genitori.
A casa del papà memore di questa festa ho guardato la dispensa, come quando cercavo qualcosa da piccolo, un regalo, una merendina, qualcosa che mi sorprendesse.
Ho spostato poche cose.
E le ho trovate, le ho prese e posate sul tavolo.
Il papà le ha guardato sorpreso dal mio interesse:
"Le vuoi? Puoi portarle a casa se ti va!".
Le ho guardate con tutta la felicità che potevo.
"No, no, mi è solo venuto in mente che stasera a Venezia c'è il Redentore...".
Anche mio papà ha sorriso, un sorriso un po'sbilenco perché il femore fa ancora un po'male e il caldo umido non lo aiuta.
Ho guardato le due teglie ovali di ceramica e mi sono preparato un caffè.
Accadeva tutte le estati. L'input era la telefonata dello zio di Rimini (gli zii materni si sono sparsi tutti nel nord Italia per lavoro o per amore) che chiedeva al papà di prenotare i biglietti della motonave che navigando dal Po di Levante portava i naviganti in Laguna e da lì al Canale della Giudecca.
Per il fratello più piccolo la mamma diceva sempre si anche alla richiesta successiva che scatenava i brontolii canonici del papà.
La mamma era un'ottima cuoca, da osteria, di quelle che ora rientrerebbero in un qualsiasi circuito "gourmet" con forchette, cappelli da cuoco e stelle varie. Era una cucina della quale ti ricordi anche i profumi nel tempo.
La richiesta dello zio era semplice e sempre la stessa, di per sé semplice.
Messa giù la cornetta la mamma apriva l'anta della madia ed estraeva due teglie ovali di ceramica, con lo strofinaccio che estraeva quasi magicamente dal grembiule le ripuliva dalla polvere e immediatamente si muoveva in dispensa, con gli anni appoggiandosi sempre più pesante ai ripiani della cucina, cercando cose che a me sembravano strane, prese a caso.
Il passaggio successivo era compilare una lista della spesa accurata, mancava in pratica solo il disegno del prodotto da comperare, che mi consegnava con i soldi e l'ordine perentorio di riportare il resto; c'era comunque un'economia famigliare da gestire.
Io qualsiasi età avessi, correvo a prendere la bici e mi fiondavo alla botteghina vicino casa.
Se non sapevo cosa fosse chiedevo, chiedevo alla signora Ada o al signor Roberto, pagavo e tornavo a casa contento.
Il viaggio lo riprendevo un po' più lungo, per andare dal pescivendolo, "di là del ponte" indicazione antesignana di Google Maps ma valida tutt'ora, a comperare le sarde, rigorosamente eviscerate e aperte. La cura del pesce era l'unica cosa che incrinava le sicurezze della mia mamma.
Tornato a casa col secondo bottino iniziavo ad osservare la mamma ai fornelli. Il papà o era al lavoro o a godersi una partita a "madrassa" al bar con gli amici di sempre, come giusto che fosse una volta raggiunta la pensione.
Stavolta non ho avuto bisogno della lista, ho impresso in testa tutto il necessario fin da piccolo.
"Ti va se le faccio? Per dopodomani sono pronte."
Il papà appoggiato alla stampella ha annuito alla stessa maniera di sempre:
"Come che te vol"(come vuoi tu), per non essere mai invadente, per non voler dare l'impressione che la discrezione venisse scambiata per arroganza.
Ho ripreso la bici come trent'anni prima anche se andare fin dopo il ponte è stato più veloce di quanto ricordassi.
Alla pescheria ho trovato il figlio del vecchio pescivendolo che contrariamente al solito, mi ha riconosciuto subito.
Con il nécessaire sottobraccio sono rincasato, girando attorno alla Cartiera spenta, e incrociando come sempre un paese di vicinato.
Sarde, cipolle bianche, aceto, zucchero, olio e farina, tutto qui.
La proporzione è di 2:1.
Ad esempio un chilo di sarde e due chili di cipolle. Semplice e immediato.
Le pentole erano tutte al posto di sempre.
Quasi con l'olio di un tempo che per alcune pentole per pulirle, specie quelle atte alla frittura, bastava la carta del giornale.
Mentre passavo le sarde eviscerate e aperte sulla farina, "girà e voltà" come si usa e gettate amabilmente nell'olio caldo pensavo ai riti con cui la mamma si preparava a cucinare, fosse anche un semplice uovo in camicia.
"Papà mi dici se posso affettare la cipolla?".
Il papà mi aiuta sempre volentieri, col tempo siamo mutati anche io e lui.
La cipolla dopo l'ammollo la affetto e la faccio appassire nell'olio d'oliva.
Il profumo mi riporta al Redentore, la gita che facevamo io e il papà da soli. La camminata sul ponte votivo fatto di zattere per andare dal sestriere di San Marco alla Basilica di Santa Maria della Salute, il ritorno al sestriere per andare svelti verso le rive sulla piazza di San Marco sempre piene per guardare le gondole in regate entrare in Giudecca direttamente dall'Arsenale. E l'odore nell'aria era un bouquet di salsedine e aceto che sfumava per le calli e ristoranti.
Le foto fatte una dopo l'altra sperando nel Redentore stesso che le fotocamere digitali e il cellulare erano ancora lontani dal venire.
Trovo ancora lo stesso mestolo di legno bruciacchiato che la mamma scordava sul fuoco, utile ora per rigirare le cipolle.
"Mi passi lo zucchero e il sale papà?".
La casa è piccola, non deve percorrere lunghe distanze per prendere i due ingredienti.
Metto il sale e lo zucchero mentre rigiro le cipolle. Le sarde sono fritte e le ho messo in uno dei Tupperware di mia madre; ce n'era uno per ogni uso, dolce o salato, solido o liquido.
L'odore è acido, penetrante.
Lo zio e i suoi amici romagnoli mangiavano col pane biscotto le due teglie ovali di ceramica come fosse l'ultimo pasto prima di qualsiasi cosa. Il vino bianco, Tocai sempre e solo Tocai fresco, sempre, scendeva a litri. Mamma coccolava con lo sguardo il fratello più giovane e inorgogliva nel portare via le due teglie ovali di ceramica vuote, linde e tinte.
Osservo le stesse due teglie ovali di ceramica; spengo il fuoco sotto le cipolle. Compongo con le sarde un puzzle e vi posso sopra ognuno dei due generosi cucchiai di cipolla. Ripeto per un altro strato l'operazione e per finire arricchisco le portate con l'uva passa.
"L'odore xe bon..."
L'odore è buono si, il papà ha ragione; sa di buono, di domeniche a Venezia e di mamma.
Ora lo chiudo con la pellicola e lo chiudo al buio nella madia per almeno due giorni, un po' come i marinai della Serenissima conservavano nei loro viaggi le sarde.
Ecco, ce l'ho fatta, un po' per caso. Ho festeggiato a modo mio il Redentore, lo zio, la mamma e il mio papà con la stampella che lo fa sorridere un po'storto.
Il clima fuori dalla finestra è ovattato, dormiente. Non si fa più filò davanti casa, altra generazione, le "sarde in saore" per il Redentore si però.
Rientro a casa del mio papà, nel weekend del Redentore, festa di tutte le feste per la Serenissima.
È una festa che di prepotenza mi riporta agli anni della mia infanzia, a casa con la mamma, quando la malattia le permetteva ancora di stare ore a cucinare per interi plotoni, anche se a casa eravamo solo in quattro.
Bestemmiando i santi di più calendari sul sito di Trenitalia per assicurarmi almeno un posto a sedere fino al paese e un po'di aria condizionata, mi ero accorto che il weekend che mi interessava era quello del Redentore.
Festa come detto, tutta di Venezia, non Città Metropolitana come intesa ora ma Repubblica Marinara, ma che a me ricorda tanto i pochi ma sicuri, anno dopo anno, momenti di festa con i miei genitori.
A casa del papà memore di questa festa ho guardato la dispensa, come quando cercavo qualcosa da piccolo, un regalo, una merendina, qualcosa che mi sorprendesse.
Ho spostato poche cose.
E le ho trovate, le ho prese e posate sul tavolo.
Il papà le ha guardato sorpreso dal mio interesse:
"Le vuoi? Puoi portarle a casa se ti va!".
Le ho guardate con tutta la felicità che potevo.
"No, no, mi è solo venuto in mente che stasera a Venezia c'è il Redentore...".
Anche mio papà ha sorriso, un sorriso un po'sbilenco perché il femore fa ancora un po'male e il caldo umido non lo aiuta.
Ho guardato le due teglie ovali di ceramica e mi sono preparato un caffè.
Accadeva tutte le estati. L'input era la telefonata dello zio di Rimini (gli zii materni si sono sparsi tutti nel nord Italia per lavoro o per amore) che chiedeva al papà di prenotare i biglietti della motonave che navigando dal Po di Levante portava i naviganti in Laguna e da lì al Canale della Giudecca.
Per il fratello più piccolo la mamma diceva sempre si anche alla richiesta successiva che scatenava i brontolii canonici del papà.
La mamma era un'ottima cuoca, da osteria, di quelle che ora rientrerebbero in un qualsiasi circuito "gourmet" con forchette, cappelli da cuoco e stelle varie. Era una cucina della quale ti ricordi anche i profumi nel tempo.
La richiesta dello zio era semplice e sempre la stessa, di per sé semplice.
Messa giù la cornetta la mamma apriva l'anta della madia ed estraeva due teglie ovali di ceramica, con lo strofinaccio che estraeva quasi magicamente dal grembiule le ripuliva dalla polvere e immediatamente si muoveva in dispensa, con gli anni appoggiandosi sempre più pesante ai ripiani della cucina, cercando cose che a me sembravano strane, prese a caso.
Il passaggio successivo era compilare una lista della spesa accurata, mancava in pratica solo il disegno del prodotto da comperare, che mi consegnava con i soldi e l'ordine perentorio di riportare il resto; c'era comunque un'economia famigliare da gestire.
Io qualsiasi età avessi, correvo a prendere la bici e mi fiondavo alla botteghina vicino casa.
Se non sapevo cosa fosse chiedevo, chiedevo alla signora Ada o al signor Roberto, pagavo e tornavo a casa contento.
Il viaggio lo riprendevo un po' più lungo, per andare dal pescivendolo, "di là del ponte" indicazione antesignana di Google Maps ma valida tutt'ora, a comperare le sarde, rigorosamente eviscerate e aperte. La cura del pesce era l'unica cosa che incrinava le sicurezze della mia mamma.
Tornato a casa col secondo bottino iniziavo ad osservare la mamma ai fornelli. Il papà o era al lavoro o a godersi una partita a "madrassa" al bar con gli amici di sempre, come giusto che fosse una volta raggiunta la pensione.
Stavolta non ho avuto bisogno della lista, ho impresso in testa tutto il necessario fin da piccolo.
"Ti va se le faccio? Per dopodomani sono pronte."
Il papà appoggiato alla stampella ha annuito alla stessa maniera di sempre:
"Come che te vol"(come vuoi tu), per non essere mai invadente, per non voler dare l'impressione che la discrezione venisse scambiata per arroganza.
Ho ripreso la bici come trent'anni prima anche se andare fin dopo il ponte è stato più veloce di quanto ricordassi.
Alla pescheria ho trovato il figlio del vecchio pescivendolo che contrariamente al solito, mi ha riconosciuto subito.
Con il nécessaire sottobraccio sono rincasato, girando attorno alla Cartiera spenta, e incrociando come sempre un paese di vicinato.
Sarde, cipolle bianche, aceto, zucchero, olio e farina, tutto qui.
La proporzione è di 2:1.
Ad esempio un chilo di sarde e due chili di cipolle. Semplice e immediato.
Le pentole erano tutte al posto di sempre.
Quasi con l'olio di un tempo che per alcune pentole per pulirle, specie quelle atte alla frittura, bastava la carta del giornale.
Mentre passavo le sarde eviscerate e aperte sulla farina, "girà e voltà" come si usa e gettate amabilmente nell'olio caldo pensavo ai riti con cui la mamma si preparava a cucinare, fosse anche un semplice uovo in camicia.
"Papà mi dici se posso affettare la cipolla?".
Il papà mi aiuta sempre volentieri, col tempo siamo mutati anche io e lui.
La cipolla dopo l'ammollo la affetto e la faccio appassire nell'olio d'oliva.
Il profumo mi riporta al Redentore, la gita che facevamo io e il papà da soli. La camminata sul ponte votivo fatto di zattere per andare dal sestriere di San Marco alla Basilica di Santa Maria della Salute, il ritorno al sestriere per andare svelti verso le rive sulla piazza di San Marco sempre piene per guardare le gondole in regate entrare in Giudecca direttamente dall'Arsenale. E l'odore nell'aria era un bouquet di salsedine e aceto che sfumava per le calli e ristoranti.
Le foto fatte una dopo l'altra sperando nel Redentore stesso che le fotocamere digitali e il cellulare erano ancora lontani dal venire.
Trovo ancora lo stesso mestolo di legno bruciacchiato che la mamma scordava sul fuoco, utile ora per rigirare le cipolle.
"Mi passi lo zucchero e il sale papà?".
La casa è piccola, non deve percorrere lunghe distanze per prendere i due ingredienti.
Metto il sale e lo zucchero mentre rigiro le cipolle. Le sarde sono fritte e le ho messo in uno dei Tupperware di mia madre; ce n'era uno per ogni uso, dolce o salato, solido o liquido.
L'odore è acido, penetrante.
Lo zio e i suoi amici romagnoli mangiavano col pane biscotto le due teglie ovali di ceramica come fosse l'ultimo pasto prima di qualsiasi cosa. Il vino bianco, Tocai sempre e solo Tocai fresco, sempre, scendeva a litri. Mamma coccolava con lo sguardo il fratello più giovane e inorgogliva nel portare via le due teglie ovali di ceramica vuote, linde e tinte.
Osservo le stesse due teglie ovali di ceramica; spengo il fuoco sotto le cipolle. Compongo con le sarde un puzzle e vi posso sopra ognuno dei due generosi cucchiai di cipolla. Ripeto per un altro strato l'operazione e per finire arricchisco le portate con l'uva passa.
"L'odore xe bon..."
L'odore è buono si, il papà ha ragione; sa di buono, di domeniche a Venezia e di mamma.
Ora lo chiudo con la pellicola e lo chiudo al buio nella madia per almeno due giorni, un po' come i marinai della Serenissima conservavano nei loro viaggi le sarde.
Ecco, ce l'ho fatta, un po' per caso. Ho festeggiato a modo mio il Redentore, lo zio, la mamma e il mio papà con la stampella che lo fa sorridere un po'storto.
Il clima fuori dalla finestra è ovattato, dormiente. Non si fa più filò davanti casa, altra generazione, le "sarde in saore" per il Redentore si però.
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