Antonio, che insegnava matematica

Nel 1976 la vita ad Antonio sembrava perfetta e in fin dei conti lo era. 
La sua vita scorreva serena, in trasferta sei giorni su sette ad Udine il capoluogo, lungo il serpentone chiamato ora Tresemane ora Pontebbana. 
Antonio lo faceva volentieri perché la sera al rientro lo aspettava Sarà, la moglie.
Antonio aveva trovato Sara molti anni prima, entrambi bambini all'oratorio in quella cittadina appiccicata alla montagna come un presepe che è Gemona del Friuli. E li erano rimasti, nonostante la vita li avesse comunque portati a momenti divisi, in altre realtà: le scuole superiori nel capoluogo, il servizio di leva di Antonio non distante,  di guardia al confine di stato di Pontebba e poche altre cose. 
Quasi nulla aveva diviso veramente le loro vite, che erano normali, di quella normalità che diventa speciale. 
Antonio guardava Sara con gli occhi dolci; gli piaceva la treccia con cui cercava di contenere i folti capelli neri. Non era alta ma l'altezza era del tutto irrilevante. Neanche Antonio lo era, anzi, per essere friulano era basso e con pochi capelli sulla testa già ai tempi delle superiori. Lavorava in una segheria poco lontano da Gemona, arrampicata nella vicina Amaro, quando il paesaggio è solo montagna, Carnia per l'esattezza e acqua di fiume, Fella o Tagliamento, per mandare avanti i macchinari.
Un lavoro che gli piaceva, che soddisfava il naturale bisogno di muovere le mani per creare: un listello di legno, la ruota di un carro, una panca. 
Il lavoro gli permetteva di mantenersi all'Università; al bisogno di creare avvicinava un altro bisogno di creare e ragionare.
La matematica lo aveva sempre affascinato, che fosse per le misure di un asse o chiusa all'interno di un teorema. Era così bravo che spesso nella casetta sotto il Duomo aiutava i figli dei vicini nello studio. Poi un bacio a mamma Adelina e via.
Era forse una vita in continuo movimento ma a lui piaceva, ne sentiva il bisogno.
Sapeva che nulla rimane così com'è; non era stata la matematica ad insegnarglielo ma i racconti di papà Bruno, partigiano sopravvissuto alla Guerra. 
Antonio mandava a memoria i racconti del padre e studiando pianificava la sua vita.
Anche all'oratorio quando la piccola Sarà entrò nella sua vita.
Tenerle la mano mentre si tuffavano nelle pozze del Tagliamento o mentre correvano sconnessi giù per via Bini, all'ombra del Duomo lo riscaldava e aveva capito subito che lei era il suo amore. Lo sapeva anche Sara, che arrossiva quando lui le accarezzava le trecce e le guance.
Anche Sara aveva una passione per lo studio; la letteratura l'aveva affascinata fin da piccola e da lì in poi i libri l'avrebbero accompagnata sempre.
Lavorava come aiutante in un negozio di fiori nella sua Gemona, anche quando si spostava con la corriera e Antonio vicino, ad Udine per frequentare le lezioni all'Università. E in quel tragitto quotidiano Antonio e Sara pianificano la loro vita: dopo il militare si sarebbero sposati.
E così fecero, costruendo sotto il Monte Glemine il loro nido.
Antonio tagliava il legno e partecipava a tutti i concorsi pubblici per riuscire ad insegnare matematica. Sarà lo aiutava e faceva lo stesso per insegnare lettere. Riuscì appena prima del marito ad ottenere una cattedra in una scuola elementare ad Ospedaletto, due passi da casa.
Antonio doveva sudare un po' di più ma non di demoralizzava e la sera rientrava a casa felice di trovare loro ad aspettarlo.
Si, perché nel frattempo lui e Sara erano diventati genitori della piccola Lucia, occhi grandi e scuri e una massa di capelli ribelli come la madre. Non voleva le trecce ma lasciarli liberi. 
Antonio la guardava e sorrideva, pensava che i capelli che non aveva più lui li aveva raccolti tutti lei.
Fra i saliscendi della loro Gemona la loro vita andava avanti serena e finalmente Antonio, in verità dispiaciuto, lascia la segheria per insegnare matematica in un liceo ad Udine.
Non gli dispiaceva salutare Sara e Lucia la mattina presto e rincasare la sera, sempre in corriera. 
Era la sua vita e si sentiva felice. Nella loro casa aveva attrezzato un angolo della cantina a piccola falegnameria, per non perdere l'abitudine diceva.
Una vita semplice, felice, che suscita a volte invidia. E nella vita di Antonio l'invidia arriva con un gran caldo, anomalo a Maggio. 
Ha un nome friulano, duro, feroce, Orcolat, Orco. Come nelle fiabe.
La vita del principe fa invidia all'Orco, che si scuote dal letargo e colpisce.
Il 6 Maggio 1976 la giornata di Antonio scorre normale come le altre. Dopo scuola andrà sul Fella, verso Moggio Udinese con le sue donne. Lucia come tutti i bambini era già pronta ai tuffi dal risveglio. 
Il caldo è anomalo, aggressivo per essere solo primavera.
Anche in corriera Antonio parlava con gli altri pendolari del troppo caldo che faceva. 
Alle pozze c'era tanta gente che sembrava una domenica di Agosto; Sara e Lucia ad Antonio sembravano la stessa persona, con solo l'età a dividerle. Nuotando e ridendo erano identiche e questo riscaldava il cuore di Antonio più del caldo fuori stagione.
La sera dopo cena Antonio era sceso in cantina a dedicarsi al legno. Come tutte le altre volte che lo aveva fatto, Lucia lo aveva seguito mentre mamma Sara sistemava la casa.
Lucia aveva il suo angolo nella cantina, dove poteva giocare con la casa per le bambole che il papà le aveva costruito lavorando il compensato.
Il caldo era silenzioso, pesante.
Anche i rumori che solitamente giungevano dall'esterno erano più radi ad eccezione del latrare dei cani, quasi impauriti.
Antonio sa che non possono stare ancora a lungo in cantina, l'indomani per entrambi c'è scuola. 
In cattedra o sul banco che sia.
Guarda l'ora sulla piccola sveglia, sono le 20:59 e qualche secondo.
Avvisa Lucia che devono salire da mamma Sara.
Lucia si avvicina e lo prende per mano. 
Sono le 21:00:12.
Un cane latra rabbioso.
Antonio vuole spegnere la luce ma si spegne da sola, gli gira la testa mentre vede il gradino allontanarsi dal piede. Cade all'indietro verso la cantina, che ora si è fatta densa di polvere, di calcinacci e segatura. Cerca di vincere la vertigine mentre sente di stringere forte la mano di Lucia.
E un rumore violento, come se la pancia di un Orco latrasse feroce dopo anni di silenzio.
È assordante e produce polvere, buio e una pioggia di pietre. 
Antonio sente la testa colpita da una miriade di schegge di legno e pietre, quelle del soffitto della cantina che ora non è più lontano, è dappertutto. Sopra le gambe che bruciano, sul torace, sul viso. 
Antonio chiama con la voce impastata di polvere Lucia.
Sente sulla sua mano la mano di lei, non lo ha lasciato, l'Orco non li ha divisi.
Lucia li chiede aiuto, dice che non riesce a respirare, che è come se qualcuno la tenesse schiacciata per terra.
Antonio le dice di stare tranquilla che proverà a portarla fuori dalla cantina.
Lucia parla piano, a fatica. Antonio con la mano libera prova a spostare i calcinacci che lo bloccano. 
Lucia parla piano, chiede al papà della mamma, dice che ha male. Antonio le parla, prova a tranquillizzarla ma non sente la voce di Sara in quel che resta del piano superiore. 
Antonio fatica a liberare le gambe, bruciano appena prova a muoverle sotto la massa dei mattoni caduti in disordine.
Antonio chiama Lucia,  la polvere non lo fa respirare. Lucia.
Non risponde, neanche se le stringe la mano. Non ce la fa a girarsi Antonio, il dolore è forte, sente le lacrime bagnarli la polvere sul viso.
E vede tutto buio.
Il 6 Maggio 1976 alle ore 21:00:12, con epicentro fra Gemona del Friuli e la vicina Artegna, una scossa di terremoto di magnitudo 6.5 stravolse la vita e la geografia del Friuli. 
Le scosse continuarono ancora a Maggio e poi a Settembre, continuando a scuotere la vita della regione.
La cittadina e molti altri comuni dovettero ricostruire vite, case e strade da zero, seppellendo 990 persone ma al tempo stesso dando esempio di forza e caparbietà nel ricostruirsi. Fu anche l'inizio della Protezione Civile così come è intesa oggi.
Antonio ha perso Sara e Lucia e parte di sé stesso.
Il ritorno alla normalità di Antonio non è più ripreso come prima. 
Ha lasciato Gemona del Friuli la mattina del 7 Maggio 1976 a bordo di un'autoambulanza verso l'ospedale di Udine. Ne è uscito a Gennaio dell'anno successivo, non riconoscendo più il mondo che lo circondava; l'Orcolat aveva cambiato tutto a tutti, all'esterno e di più all'interno.
Antonio lasciò l'insegnamento, lasciò lassù il ricordo di Sara e Lucia.
Senza più un capello in testa, l'andatura storta per le numerose fratture subite, Antonio sarà ancora per un po' falegname, quando l'umore glieli farà fare, quando il ricordo non farà così tanto male.
Sceglierà di vivere più giù a ridosso di Udine, in un paese piccolo, dove in poco tempo tutti lo conoscono. Pochi però sanno la verità.
Antonio ora è un signore vicino agli ottant'anni, vistosamente zoppo, con tante minuscole cicatrici sul viso. Non gli importa se fa freddo o caldo. Cammina molto nonostante la zoppia con addosso solo una tuta. 
Gesticola sempre, mentre cammina e mentre parla coi pochi che gli rivolgono la parola. 
Si strofina forte il viso, come se ancora la polvere lo ricoprisse.
Parlandogli è impossibile non notare il ciondolo al collo, femminile ma è irrilevante, e il tatuaggio sul polso sinistro.
Sono due lettere, una S ed una L. 
Borbotta, non parla, quel genere di borbottio di chi ha la gola piena di polvere.



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