Nei giorni in cui ha voglia di passare in centro non si può non notarlo.
Per una infinità serie di fattori che compongono le giornate di chi lo osserva e le sue, apparentemente sempre uguale a se stesso ma profondamente diverso, un giorno per l'altro.
Marko ha un'età, come tutti, indefinita; indefinita perché come la luce cambia i dettagli delle cose, la sua età cambia a seconda dello stato d'animo, dell'umore dopo pranzo e del quadro dipinto.
Un po' come riassumere tutto in una volta il concetto di Jugoslavia, quella prima dei Karadzic e dei Milosevic. Quella Jugoslavia che nelle arti riversava fantasia ed estro così come negli sport.
Marko, questo il suo nome, esce da quella che ora si chiama Croazia, da Rijeka l'italianizzata Fiume, città portuale che apre le isole croate, nella baia del Quarnero.
Una città che è un po' romana, un po' barbara, molto asburgica, che con un porto fra i più attivi nei secoli scorsi non poteva non risentire delle culture che nei secoli l'hanno attraversata.
E Marko quest'aria salmastra e montana l'ha respirata fin da piccolo.
Marko ha tre fratelli coi quali dividere la piccola casa a ridosso del porto; casa asburgica che diventa il suo contrafforte.
Osserva la baia e il suo andirivieni di navi e piccole imbarcazioni, guardando la linea dell'orizzonte colore azzurro cobalto.
Lo sa che oltre quella linea c'è l'Italia, della quale, per motivi che i genitori e i vecchi nelle osmize rimpiangono o maledicono a seconda della propria idea, Rijeka fa un po' parte.
È un piccolo particolare geografico che riguarda isole e montagne del Carso, ma al piccolo Marko come ai fratelli non interessa molto.
Il futuro è in la, ancora per un po'.
Dopo la scuola Marko chiama i fratelli e i figli dei vicini e porta le gambe esili a correre negli spiazzi antistanti i magazzini del porto. Con le gambe esili c'è un pallone, di cuoio che il papà Branko gli ha regalato una sera tornato dal lavoro di portuale.
La mamma Zelijka sorrise mentre cuciva il vestito buono della padrona di casa.
Marko amava il pallone, pallone che a Rijeka nella vecchia Jugoslavia era di casa, quasi padrone. L'HNK disputa la serie A, è forte e non può essere un caso se a Marko quella palla di cuoio scura piace tanto.
Ne sente i racconti delle gesta nelle osmize, "dei brasiliani d'Europa", gente tosta, capace di mettere in difficoltà i brasiliani veri e gli inglesi ma paradossalmente incapaci di compiere l'ultimo passo. Nel 1976 però succede qualcosa che all'adolescente Marko cambia la vita.
Le sue gambe esili fintano e saltano troppo bene e troppo spesso, spinte dall'aria salmastra del porto perché qualcuno non lo segnali ai vertici dell'HNK. Marko coi fratelli e il padre Branko frequente le gradinate nude di cemento dello stadio Cantrida.
Ci sa fare con il pallone anche se il fisico è rimasto minuto. Così minuti che ogni maglia che indossa correndo gli regala una buffa gobba.
Adora Surjiak, Safet Susic, il ct Mladinic e il portiere Petrovic. Sa a memoria si la formazione dell'HNK ma pure quella della nazionale che nel 1976 chiude al quarto posto l'Europeo di calcio.
Il padre lo accompagna al provino osservandolo in silenzio. A casa la mamma e i fratelli lo aspettano.
Piove, piove tanto e la maglia di flanella pizzica la pelle e pesa sulle spalle di Marko ma lui è abituato a giocare negli spazi stretti del quartiere costruito dagli Asburgo, dribbla sul piazzale del porto senza paura di cadere sul cemento, che piova o ci sia sole.
Le finte dell'esile Marko sono pennellate.
Si, pennellate.
Marko è anche affascinato dal pittore autodidatta , impressionista, Ostrogovich, italiano che a Fiume ha trovato l'essenza della sua arte. L'arte lo attrae come il pallone di cuoio scuro. E nel tragitto per raggiungere il porto osserva per lunghi minuti i quadri e le installazioni della Galleria d'arte moderna.
Le osserva in silenzio, grattandosi distratto la punta del naso ricurvo.
Ne consuma tele ed informazioni e a casa Usa e consuma i pennelli e i colori ad olio di mamma Zelijka, pittrice in gioventù, prima di conoscere l'affascinante Branko e chiudersi nella sua casetta asburgica a cucire vestiti.
Marko è esile, il naso grande e ricurvo, è forte. All'ala destra non riescono a fermarlo; l'obiettivo è colorare la maglia di flanella scura che ha addosso di bianco e azzurro.
Come quella dell'NHK.
Papà Branko osserva orgoglioso il figlio segnare uno, due, tre gol. Tutti uguali e tutti diversi, con quelle pennellate a scartare avversari grandi il doppio del figlio.
È fatta. Entrerà nella seconda squadra, massima categoria giovanile. All'ala destra, numero sette.
Tornando a casa con l'autobus papà Branko cinge le spalle di Marko. Trema di freddo ma è contento. Un giorno guarderà dal prato le gradinate nude di cemento del Cantrida. Ora però, pensa a quando lo dirà a mamma Zelijka, ai fratelli; festeggerà colpendo ad olio sulla tela.
Dopo l'ingresso nelle giovanili, decine di paesaggi impressi su tela, il suo amato porto e il mare con dietro l'Italia, innumerevoli ritratti della madre, la donna più bella che abbia mai visto, Marko corre verso la prima squadra.
È forte, continua a dribblare come sullo spiazzo del porto e la sua bravura si stacca dalla mediocrità di tanti compagni.
La sua bravura suscita invidie e cattiveria.
È un figlio della classe operaia che non può volare in paradiso, e anche in allenamento aumentano le botte dei compagni più invidiosi.
Marko si rialza sempre, sempre col sorriso silenzioso.
Manca tanto così ad esordire in prima squadra, nella prima divisione.
Piove ancora, nuovamente, ma Marko questa volta è un po'più grande, non sente pesare la maglia. La palla è bianca e nera, lui la rincorre.
Evita un avversario, ne evita un secondo rientrando all'improvviso verso sinistra, poi di nuovo a destra, evita come un folletto anche la pioggia ma l'ultimo impatto non può evitarli, forse non lo vede arrivare, forse non ha sentito la cattiveria corrergli vicino.
Cade come un sacco che all'improvviso si svuota.
Il naso grande e ricurvo respira l'odore di erba bagnata e fango, ne ha la punta ricoperta.
Piove sul dribbling di Marko.
Il compagno Dragan si agita, caccia via con le cattive un altro compagno. Marko non lo ha visto arrivare, ora sente mille aghi pungere la tibia destra. Sente caldo come se si fosse scottato.
Guarda ancora attorno, respira erba bagnata e fango e sviene.
Mamma Zelijka gli fa vedere la nuova camicia bianca che gli ha cucito.
Marko sorride un po' triste guardando la camicia e papà Branko. Il papà sta bevendo una grappa prima di pranzo, oggi è a casa. I fratelli sono a scuola e per Marko è giunto il momento di un colloquio di lavoro in una officina vicino il porto.
Mamma Zelijka ha cucito un vestito con tanto di camicia apposta per questo incontro.
Marko sa che non può deluderli.
Prende la camicia e zoppicando un po' si chiude in camera sua per vestirsi. E piangere pensando a Dragan che ha esordito in serie A al posto suo.
Guarda il quadro ad olio dello stadio Cantrida e vicino quello della madre. Sorride un po'.
Ora Marko è un bravo fabbro, di quelli che parlano col ferro e quando timbra il cartellino rimette gli scarpini e rincorre un pallone.
È meno esile di prima, l'erba che calpesta è meno nobile di quella del Cantrida ma a lui ora sembra bastare così.
Gioca all'ala destra nei dilettanti dopo quaranta ore a battere il ferro per chi lo lavora al porto.
Ha tutta la classe di prima ancora intatta se non fosse per i colori alla gamba destra che in alcune giornate lo fanno giocare quasi da fermo, con quel suo naso grande e ricurvo e l'andatura caracollante.
Eppure ad un certo punto Marko deve cambiare.
Papà Branko non c'è più, mamma Zelijka ha spento il sorriso e Marko non ha più un lavoro. Si guarda attorno, crisi economica di chiama, così dicono anche dentro le osmize.
Lui guarda un quadro azzurro, tutto azzurro, esposto alla Galleria d'arte moderna.
Ecco l'idea, l'azzurro, il mare, di là dell'orizzonte, l'Italia. In fondo Rijeka è Fiume e Fiume per qualche cosa che gli sfugge è quasi Italia. Non deve attraversare il mare, Trieste è pochi chilometri più a nord.
Una mattina di settembre con la foschia quasi nebbia Marko saluta la madre e i fratelli, ha deciso. Sa che la madre non è contenta ma sa che non lo fermerà anzi, gli ha cucito delle camicie nuove.
Sale a bordo della sua Fiat 127 verde bottiglia e si dirige verso il porto per costeggiare ancora un po'il mare della sua Rijeka e imboccare infine la strada che lo porterà a Trieste.
Un vecchio collega davanti ad un piatto di salumi e un bicchiere di grappa gli ha detto che vicino Trieste c'è un connazionale che lo può ospitare. Mamma Zelijka ha confezionato un paio di camicie anche per il connazionale pur non conoscendolo.
Marko lo raggiunge nel paese di destinazione. Ha caricato poco nella sua macchina, il pallone di cuoio scuro del papà Branko, gli scarpini neri e uno scatolone con dentro pennelli, colori e tele, nuove e già dipinte.
Il connazionale che lo ospita si chiama Mario, è alto e largo come un armadio, pochi capelli e ancora meno denti. Sorride quando li vede e quando gli parla.
Tranquillizza Marko che vede uno spicchio di Jugoslavia a Duino, sul mare, falesie e castelli, per sentirsi sempre a casa, tanti campetti da calcio e piccole fabbriche dove sperare di ricominciare.
Mario presenta la moglie a Marko, da al ragazzo le chiavi di casa. E poi la grappa. Si brinda.
Marko osserva il suo nuovo paese, telefona a mamma Zelijka.
Marko è contento perché c'è ancora il mare, ci sono i castelli, c'è tanta arte da guardare.
Mario è come il fratello maggiore, lo segue, lo porta al lavoro, gli offre la grappa in osteria.
Marko ha voglia di giocare a calcio ancora.
Ne parla con Mario, lo rassicura che non sarà la giornata a battere il ferro a stancarlo.
Mario conosce un dirigente di una squadra di Prima Categoria, dilettanti triestini. Porta Marko dall'amico. A Marko chiedono di far vedere cosa sa fare in campo.
Lui lo fa.
Comincia a toccare il pallone come a Rijeka, come quando indossava la maglia di flanella. Corre un po' zoppicante ma corre, crossa, lancia la palla come col telecomando.
Mario parla con il vecchio dirigente.
Marko è stanco ma contento; adesso sa che può ricominciare.
Lavora sodo, aiuta Mario a sistemare la casa e tre volte la settimana si allena la sera, con la pioggia e la bora, e la domenica pomeriggio scende in campo, all'ala destra.
Sotto il naso grande e ricurvo ha lasciato crescere due folti baffi neri. I compagni di squadra e i colleghi alla fabbrica lo chiamano "Causio", come il Barone del calcio italiano.
Trova anche una compagna, Simona, "mula" triestina e convinto da Mario va a vivere con lei vicino ad una falesia sul lungomare di Duino.
Da lì dipinge, dipinge in ogni momento, studiando il panorama, lisciandosi i baffi e sedendosi ogni tanto a fare riposo alla gamba destra.
L'età avanza e il vecchio infortunio lo tormenta, anche sui campi da calcio. Non riesce più a finire una partita intera. Vorrebbe, ma il fisico non lo ascolta.
Parla con Simona e Mario, vorrebbe organizzare una mostra, una piccola personale. Dice che sente che i suoi quadri a qualcuno potrebbero piacere.
Mario è entusiasta, meno Simona che da un po' ha smesso di sorridere come prima.
Lo dice al telefono a mamma Zelijka che risponde entusiasta. Incoraggia il figlio. È contenta. Saluta il figlio per l'ultima volta così.
Marko accusa il colpo. Sente che qualcosa attorno è cambiato.
All'allenamento serale fatica sempre più, la gamba duole e Marko capisce che gli scarpini dovrà appenderli una volta per tutte.
Davanti ad una grappa ne parla con Mario che non ha più né capelli, né denti ma solo una pancia prominente.
Il lavoro comincia a risentire della crisi economica italiana, ci sono meno commesse per la sua fabbrica.
A casa ne parla con Simona che gli confessa di essere stanca di lui e vuol tornare a Trieste. Marko sorride amaro e quella sera svuota una bottiglia intera di grappa. Farà lo stesso le sere dopo, senza allenamenti, senza Simona.
Annebbiato dall'alcol dipinge, pennella con la stessa leggerezza con cui correva all'ala da giovane.
Passa giorni interi davanti le tele; bottiglie vuote e tele piene, disordine attorno.
Marko si spegne, Mario fatica a tenere a galla l'amico che sta sgretolando la sua vita come la loro vecchia Jugoslavia esplosa col rumore degli obici in mille stati. Ora loro sono solo croati.
Marko lo sa ma non da ascolto; indossa una camicia di flanella bianca, un gilet di pelle e pantaloni e giacca di velluto, in testa un cappello di feltro a scacchi. I baffi sono sempre più folti e grigi. Nasconde i soldi in diversi portamonete legati fra loro. Riempie di poche cose le sua vecchia Fiat 127 verde bottiglia e saluta Mario. Ha deciso, ha lasciato la fabbrica che non aveva comunque più posto per lui e si dirigerà verso Udine, centro della regione.
Fra le poche cose ci sono tele, pennelli, latte di colore. E sotto le pile di quadri una vecchia carrozzella rielaborata.
Marko ha deciso che quello sarà il suo lavoro: dipingerà tutti i ricordi di una vita, le cose nuove che vedrà finché la vista glielo permetterà. Non farà forse mai una sua personale ma userà quella strana carrozzella come una bancarella.
Ad Udine abita vicino il centro, non ha più la vecchia Fiat 127 verde bottiglia. Si sposta a piedi, zoppicando sempre un po'. Carica ogni mattina la carrozzella della sua arte, con un vecchio zaino sgualcito, sei lattine di birra che compra al discount e poco altro. Zoppicando inizia la sua marcia verso la Galleria, verso la piazza e il castello. Li lascerà la carrozzella in vista, che tutti possano vedere le falesie di Duino, il porto di Rijeka o il sorriso di mamma Zelijka. Ogni tanto entra in qualche negozio nella maniera più discreta possibile. Osserva Marko e se gli si chiede qualcosa spiega, racconta, parla di sé.
Sempre lasciando a vista la sua carrozzella.
Parla coi commessi, ogni tanto ci scappa un caffè e poi monta la tela e dipinge la bellezza del centro di Udine. Il grande naso ricurvo termina con dei grandi baffi bianchi, quasi candidi come le volte sopracciglia e i capelli un po'più tardi. La vista è viziata da una forte miopia. Ride quando racconta dell'NHK, e sorseggia piano dalla lattina di birra. Disegna pennellate malinconiche, lente rispetto al passato. Il "Causio" zoppica di più passando in Galleria, col sorriso amaro saluta il commesso che ricambia e che non sa che età ha.
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