Alla fine tutto questo doveva in qualche modo succedere. Per certi versi è quello che ci è peculiare, tipicamente italiano.
Dopo giorni con il fiato sospeso, in tutti i sensi, il governo Conte ha partorito il tanto atteso e temuto decreto sull'emergenza Covid-19; per giorni tutti noi abbiamo buttato l'occhio ai social, alla stampa on line, al triste rendiconto di contagi e decessi senza volerci accorgere che la vita quotidiana stava inevitabilmente cambiando.
Ci sono state decisioni discutibili, buone solo per metà, decreti per fasce orarie quasi che il virus timbri il cartellino e un'economia andata in crisi sotto l'attacco dello stesso virus, la gestione precaria di un governo con le toppe e l'incoscienza di noi che ci spostiamo nel territorio.
Adesso, da un giorno, però sappiamo cosa fare e cosa non fare, le zone da evitare, quelle che sono diventate immense zone di quarantena e anche che il Covid-19 non fa distinzione fra un pensionato, un Capo di Stato Maggiore, un infermiere o un Governatore.
Ci stiamo autoconvincendo a non dare la mano, a sternutire nell'interno dei gomiti, a stare all'aria aperta, cose che in fondo avremmo dovuto fare fin dall'età prescolare.
Ma siamo un popolo che ha bisogno di carte bollate, intestate e firmate altrimenti non facciamo nulla di nostra spontanea iniziativa.
Ci serve sempre qualcuno che ci indichi la via, giusta o sbagliata che sia. Ce la devono indicare bene, come bambini che non sanno ancora muoversi nel mondo.
E ancora non basta.
Non basta perché vogliamo tutti fare i ribelli, andare contro a prescindere e fare un po' di testa nostra.
Per decreto chiudono i centri commerciali? Andiamo di corsa a far lunghe code sulle piste da sci, appiccicati uno all'altro. Troppo affollata la montagna? Scendiamo al mare per l'aperitivo, ancora più stretti uno all'altro e pazienza se i gestori di una e dell'altra realtà sene infischiano della prevenzione, della distanza che tutti, ma proprio tutto dovrebbero tenere.
Prevale il cash, il denaro, sempre e comunque, anche a scapito della salute.
Si, perché se il divieto in fatto di prevenzione ci obbliga a cambiare modo di salutarci, di porci verso l'altra persona, a non stringere mani e a stare soprattutto ad un metro di distanza per non "aiutare" il virus.
Ecco, questo passaggio della prevenzione sfugge ai più.
Assieme ad un altro passaggio molto semplice: oggi dobbiamo stare a casa, uscire solo per lavoro e spesa. Semplice, quasi lineare nel suo imperativo.
Dobbiamo evitare di fare gruppi, di accalcarci e fare ressa. Stare distanti, appunto.
Ma non è così, davvero.
A scuole chiuse per le vie delle città e per le gallerie ci sono tanti giovani e giovanissimi a passeggio e tutto quello che sta succedendo sembra non toccarli, pare quasi che l'età, la giovane età, garantisca una qualsivoglia immunità.
L'augurio è che lo garantisca davvero e che possano godere del futuro che gli aspetta ma la realtà è dura, è un pugno allo stomaco.
Se lo sport viene fermato, se si sceglie, potendolo fare, di lavorare da casa, è segno che ora bisogna farlo.
Invece c'è la ressa a stare vicini, per negozi, tossendo liberamente e pazienza se il commesso ha i figli a casa da scuola per non farli ammalare.
Anche questo aspetto del decreto lascia molto a desiderare.
Ci manca l'educazione, soprattutto l'educazione.
Si sono visti parchi nuovamente pieni di famiglie, nonni e nipoti all'aria aperta.
In fondo come sarebbe giusto.
Il Governo sta approntando le modifiche per i permessi per quei genitori che sono a casa perché non hanno nessuno cui lasciare i figli.
E anche questo finalmente è positivo.
Resta la prevenzione il tasto dolente. E speriamo che la chiusura di tutto quello che è aggregazione serva a far capire quanto importante sia rispettare noi stessi e gli altri.
Posto un'immagine non mia che spiega quanto sia difficile questo momento.
E dico grazie a tutti questi professionisti.
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