Il tempo e le mie personali esperienze mi hanno regalato la certezza che ogni paese ha una manciata di abitanti destinati a diventarne una specie di simbolo, nel bene o nel male, quasi un feticcio di un quartiere, di un bar, qualcuno che negli anni diventa qualcosa, si smaterializza con la fine ultima di continuare a vivere negli anni nei discorsi dei compaesani.
Se il paese è un paese piccolo, con i portici che sussurrano a chi vi transita la storia veneziana, il canale a regolare in parte l'urbanistica e l'umidità che diventa nebbia, da irraggiamento per la precisione, che sia estate o inverno regola i ritmi delle giornate una persona come il signor Brenno non può passare inosservata.
A partire da quel nome celtico e duro, così lontano dai nomi cantilenanti veneziani.
Non sapevo molto, io bambino, di quello strano signore.
Lo vedevo passare vicino casa mia, davanti alla chiesa del paese, sempre molto pensieroso, con le mani dietro la schiena, tanto che mi ero convinto che avesse un lavoro davvero impegnativo perché quando il mio papà rientrava dal cantiere edile non era mai pensieroso, anzi.
Lo aspettavo per salire sulla moto Beta 50 cc per il giro attorno alla piazza antistante la chiesa seduto a cavalcioni sul serbatoio grigio metallo.
Mentre il papà mi faceva fare il giro spesso incrociavamo proprio il signor Brenno, che abitava poco lontano da noi, dall'altra parte della stessa piazza, con la sua mamma.
Salutava mio padre con un arcaico "Voi" e rincasava con la stessa postura seriosa di tutto il giorno.
Specie i giorni d'estate lo vedevo passare perso nei suoi pensieri, sempre coi capelli neri pettinati, vestito con una certa eleganza; camicia, cravatta, giacca e scarpe abbinate. Tutti i giorni.
Avevo capito che lasciava la piccola casa dove abitava con la mamma per andare al lavoro anche la domenica.
Col tempo ne ne sono convinto che il suo lavoro fosse davvero importante e faticoso.
Non volevo chiederlo al papà ma mi incuriosiva.
Sapevo che sorrideva quando mia madre, e anche altre vicine di casa, lo chiamavano per dargli un pacco avvolto in fogli di giornale o una borsa di plastica.
Erano i vestiti vecchi del mio papà che la sua mamma riportava con pochi ritocchi a nuova vita.
Passando sotto la sua finestra la vedevo cucire, qualsiasi cosa, con gli occhiali da vista che mi sembravano enormi e un ditale dorato alle dita.
Quando capitava che il signor Brenno ricambiasse il mio saluto, questo era un borbottio all'apparenza uguale, in realtà variava la tonalità a seconda dello stato d'animo.
Il signor Brenno era come il vicino che incuriosiva i bambini del vicinato di tanti film americani, solo che io non lo molestavo, anzi.
Un po' mi intimoriva.
Anche quando col papà passeggiavo sotto i portici per andare a prendere il gelato al "Caffè Commercio", denominazione di ogni locale posto letteralmente in mezzo al paese, e lo incrociavamo.
A me, bambino, prima di definire una somiglianza più veritiera con il giornalista Rai Paolo Frajese il signor Brenno ricordava con quel viso scuro e l'espressione a volte torva Gonzo, il corvo dei Muppets.
La somiglianza con entrambi come mi confermò ridendo, una sera la mamma, c'era.
Solo che il signor Brenno corrugava le ciglia quasi ad ogni passo, perso in chissà quali pensieri, assumendo un tono iracondo ogni volta.
Una sera d'estate scoprii che osservava il paese da un angolo dei portici, al riparo dietro una colonna. Osservava, auto, biciclette, adulti e bambini.
Mi fermai ad osservarlo anche io e notai che a braccia conserte era come se tenesse il conto di tutti i movimenti del paese.
Il signor Brenno cominciava ad incuriosirmi e io una sera chiesi a mamma e papà perché si comportasse così.
Mi rispose il papà sorridendo, ho capito in seguito per tranquillizzarmi, dicendo che era un uomo molto impegnato, che per lavoro osservava la gente.
A poco a poco la figura del signor Brenno entrò a far parte del mio quotidiano, anche quando mi sono spostato sempre più verso l'età adulta.
Noi ci trasferimmo perdendo un po'di vista il signor Brenno e la sua mamma, ma essendo rimasti ad abitare in un paese di tremila abitanti per rivederlo mi bastava entrare al "Caffè Commercio".
Si perché nel periodo successivo allo stacco il signor Brenno restava spesso chiudo in casa non riparandosi più dietro una delle colonne dei portici.
Aveva iniziato a cambiare la sua routine i giorni seguenti la morte della sua mamma.
Non aveva cambiato il modo di camminare, l'intensità di elucubrazione di chissà quali pensieri, semplicemente dopo la morte della madre gli era venuta voglia di sedersi.
Tutti i giorni si accomodava al solito tavolo all'angolo del "Caffè Commercio", quello dal quale si poteva osservare chi entrava.
Il signor Brenno dal tavolino continuava ad osservare in fondo il paese.
Io ero cresciuto nel frattempo e avevo capito che i pensieri che affollavano a testa del signor Brenno non erano legati al lavoro; lui non lavorava.
Non avrebbe potuto, me lo spiegarono i miei genitori quando traslocammo che Brenno non poteva lavorare.
Per me era sempre il signore cui mia madre dava gli abiti che il papà non metteva più e che mi salutava boffonchiando.
Al tavolo del bar lo salutavo con la stessa cortesia di sempre e passavo oltre.
Il signor Brenno ordinava un bicchiere di acqua gassata con una fetta di limone e scriveva.
Scriveva tanto, parole fitte, posando sul tavolo un bloc notes e una penna biro.
Negli anni l'aspetto del signor Brenno era cambiato; i capelli neri e pettinati come quelli del giornalista erano diventati lunghi e grigi.
Sul volto sempre ombroso era apparsa una barba che da incolta era via via diventata più lunga e folta, grigia.
L'aspetto che prima mi ricordava Gonzo ora aveva dei tratti quasi messianici.
Anche i miei compaesani se ne erano accorti ma il più delle volte se ne accorgevano per prendersi gioco del signor Brenno.
Io seguivo il mio papà, lo salutavo come sempre .
Ogni tanto passandogli accanto cercavo di vedere cosa scrivesse ma la calligrafia era così fitta e minuta che desideravo quasi subito.
Il signor Brenno aveva cambiato anche abbigliamento, non indossando più solo la giacca e la cravatta ma anche un lungo trench beige, così particolare che assomigliava in maniera triste all'ispettore Derrick.
E il nome del poliziotto bavarese divenne il soprannome del signor Brenno: Derrick, però con l'ironia cattiva dei piccoli paesi.
Indossava il trench anche quando la nebbia diventata aerosol appiccicoso di calore.
Quando l'aria sulla piazza della chiesa si faceva densa di calore il signor Brenno usciva con il trench annodato in vita, sopra la giacca e la cravatta. Usciva per andare dalle suore del paese che gli preparavano pranzo e cena e per sedersi al solito tavolino del bar e scrivere.
Scriveva appunto e nessuno ci faceva caso.
L'estate del mondiale di calcio 1994 le partite le trasmettevano ad orari insoliti per l'Italia ma tant'è che capitava di trovarsi al bar magari dopo pranzo e tifare per gli azzurri.
Capitò che mentre il signor Brenno non c'era, che Roberto Baggio fuggiva ai tacchetti dei calciatori nigeriani al "Caffè Commercio" si presentò una pattuglia della polizia arrivata addirittura da Rovigo, mostrando a Mario, il titolare, il tesserino e parlando a bassa voce. Mario annuiva, scuotendo la testa incredulo, mentre uno dei due poliziotti mostrava un foglio di carta. Mario sorrideva malinconico e gesticolando indicava il tavolo del signor Brenno. Indicava poi alcune colonne dei portici e sorrideva sempre malinconico.
I due funzionari di polizia prendevano nota e annuivano quasi rassegnati.
Fecero firmare delle carte al signor Mario e salutarono comprensivi. Mario scosse la testa tornando alle sue mansioni.
Il signor Brenno boffonchiava sempre con le braccia unite dietro la schiena, chiuso nel suo trench beige.
Salutava sempre meno volentieri, chiudendosi dietro la porta di casa, forse cercando il trait d'union con tutti i pensieri elaborati in quegli anni. Aveva smesso di lavarsi e prendersi cura di sé, lasciando crescere i capelli e la barba in maniera rabbiosa, come il suo carattere.
A volte le suore allertavano la polizia municipale che trattenendo il respiro entrava a casa del signor Brenno per capire senza mai dare una risposta utile.
Brenno restava Derrick e basta.
Alla pattuglia di polizia giunta da Rovigo si aggiunse una pattuglia giunta da Padova, in quell'estate del mondiali americani.
La scena al bar fu la stessa solo che quella volta Mario ci spiegò il motivo.
Scriveva il signor Brenno, e prima osservava di nascosto.
Ma osservava anche da casa e da casa anche scriveva.
E spediva, tutto quello che osservava del piccolo paese di tremila anime. Vedeva anche dentro la nebbia e scriveva, spedendo ogni cosa scritta alle questure del Veneto.
I controlli avevano chiarito tutto ovviamente ma erano finiti lì per quella slegatura che fra le forze dell'ordine italiane e gli enti assistenziali spesso crea più danni che benefici.
Il signor Brenno divenne ancora per qualche tempo l'ispettore Derrick, come la serie televisiva, continuando a scrivere e spedire senza più venir ascoltato che ormai fra le questure era persona nota.
Continuò finché il comandante della polizia municipale del paese suonò al suo campanello e gli chiese cortesemente di andare con lui, in auto. Il signor Brenno acconsentì togliendosi dal volto messianico l'espressione cupa di sempre e salì in auto.
Non fece caso al comandante che scusandosi indossava una mascherina chirurgica, spiegandogli che era solo prassi.
Il signor Brenno borbottò una specie di risposta mentre la Fiat Punto attraversava la piazza della chiesa svoltando verso il "Caffè Commercio" per poi uscire dal paese e imboccare la statale verso Rovigo.
Era un ricovero, un trattamento sanitario obbligatorio. Erano state le suore a richiedere l'intervento dell'Asl per salvare il signor Brenno che accettò senza lamentarsi perché in fondo stanco di stare a casa senza la mamma vicino.
Nessuno ha mai saputo quando il signor Brenno ci ha lasciati ma io il giorno che è passato davanti al bar sull'auto della polizia municipale me lo ricordo con un po' di malinconia.