Questa è una storia a sé, diversa da quelle solitamente lette. È una storia rimasta sempre sottotraccia, sussurrata come fosse un pettegolezzo senza fondo. Dall'altra parte della storia quasi fosse un'onta da nascondere.
In tempi di emergenza, paure e battaglie la storia del signor Stanislav è una bella storia di coraggio e responsabilità.
Stanislav nasce all'estremo confine orientale della grande Unione Sovietica, in quella Vladivostok, oggi al confine fra Cina e Corea del Nord, capolinea della tratta ferroviaria Transiberiana, la più lunga del mondo.
Stanislav nasce a sette giorni di treno da Mosca, un tempo enorme che ben descrive la vastità e la complessità dell'Unione Sovietica.
Nasce nel 1939, il 9 settembre ultimi giorni d'estate quando la penisola odora la baia con gli ultimi giorni dell'estate.
Nasce quasi assieme alla sua città, talmente particolare e strategica all'interno della piccola baia di Zolotoy Rog che guarda il Pacifico, da mutare più volte nel corso della sua storia, vittima suo malgrado delle manovre bellico politiche di Giappone e Unione Sovietica, che da quando ne avrà il controllo cambierà nel bene e nel male l'aspetto geopolitico.
Stanislav è un bambino che cresce sufficientemente lontano dagli echi della Seconda Guerra Mondiale, cresce osservando le truppe sovietiche stabilizzarsi in città e apparentemente, ai suoi occhi, osservare il Giappone, piccola linea in fondo all'orizzonte.
Per Stanislav l'eco della guerra fortunatamente è questo.
Vladivostok osserva la guerra, le truppe sovietiche entrare in città e vivere un'attesa che si protrarrà fino alla fine del conflitto in maniera indenne. Per Stanislav il conflitto sarà rappresentato dal gesto che i genitori compiono, come tutti i cittadini sovietici, di donare oggetti di valore per aiutare lo stato ad acquistare materiale bellico.
Sul golfo dedicato a Pietro il Grande la vita ha in aspetto apparentemente normale mentre a settemila chilometri più ad ovest l'Unione Sovietica vive Stalingrado, la sciagurata invasione italo-tedesca.
La fame e la tragedia.
Stanislav lo sa perché ascolta il padre raccontarlo alla mamma, la mamma stringere impaurita l'orlo del grembiule.
Vladivostok negli anni del conflitto ha vissuto la guerra da un punto di vista particolare: vedetta in quella baia sul Pacifico.
Stanislav osservava quell'andirivieni di uomini in divisa e nascosto fra i boschi di betulle osservava quelle grandi navi grigie e scure fermarsi, come se si addormentassero alla fonda davanti Vladivostok.
Il mondo quando il piccolo Stanislav ha sei anni si ferma, disinnesca il conflitto e prova a ricominciare.
Vladivostok all'interno dell'Unione Sovietica è un territorio strategico dopo le paure della Seconda Guerra Mondiale, al punto tale da venir chiusa, se non nascosta, agli stranieri. Nessuno sa di preciso cosa si muove nella cittadina portuale.
Lo sa Stanislav che cresce circondato da soldati, da quelli dell'Armata Rossa e da quelli della Marina. Stanislav deve studiare anche se non ne ha molto voglia; studia e osserva la Flotta del Pacifico insediarsi fra le betulle e le colline. Stanislav non trova molta differenza degli anni della guerra nelle persone che gli stanno attorno.
A casa lo invitano a studiare, studiare per uscire da lì.
Stanislav sceglie ingegneria; in fondo osservare, studiare quello che ha davanti gli piace. I numeri pure. Per farlo però deve accettare un aiuto, che nell'Unione Sovietica degli anni '50 è quasi sempre un aiuto militare.
Lo sa anche Stanislav, anche se di fare il militare non ne ha voglia.
Aggrotta le volte ciglia ma l'Armata Rossa è il suo futuro più immediato.
Stanislav percorre la Transiberiana a ritroso, attraverso i sette giorni di viaggio, per arrivare a Mosca.
Mosca che è la città più grande, capitale dell'Unione Sovietica e per imposizione di tutto, o quasi, l'Est europeo.
Il conflitto mondiale ha lasciato conseguenze forti in tutto il mondo, ora diviso in due grandi blocchi: ad Ovest il Patto Atlantico, ad Est il Patto di Varsavia.
Il mondo non è rimasto immune alle guerre e anzi il conflitto fra i due blocchi si inasprirà muovendosi su più terreni.
Si chiama Guerra Fredda.
Stanislav Petrov ora è arruolato nell'Armata Rossa, è un analista. Fare il soldato non gli piace, ha lo sguardo serio in ogni foto, anche quando era bambino e i capelli neri ben pettinati ma il suo essere soldato è tutto lì.
L'Armata Rossa però è il suo lavoro e con l'avanzare dei tempi, il compito di analista si fa più impegnativo.
Analista nella difesa antiaerea dei cieli sovietici, si perché la Guerra Fredda sconvolge il mondo sottotraccia.
Si fa la guerra senza che la guerra sia diretta.
È una guerra di spionaggio, di boicottaggi e divieti.
Stanislav da bravo soldato, anche se non lo sopporta, è preciso e puntuale. Analizza i dati di tutto ciò che passa sopra i cieli sovietici.
I due giganti che comandano il mondo hanno lanciato la corsa agli armamenti nucleari, missili che possono volare sopra gli oceani, la conquista dello spazio, riempito piano piano di satelliti spia e non.
Usa e Urss hanno obbligato il mondo nel secondo dopoguerra a schierarsi, a prendere una posizione.
Così mentre il soldato Stanislav Petrov un po' controvoglia, accende una sigaretta di tabacco sovietico Belomorkanal e saluta la moglie, indossa con ordine la divisa della Vojska PVO, la difesa antiaerea, tutto il mondo che si trova oltre Vladivostok, oltre la cortina di ferro assiste in apparente silenzio al Vietnam e poi all'Afghanistan, guerre in nazioni che, rispettivamente, per Usa e Urss hanno significato un'ecatombe di uomini e di tempo, per entrambi inutilmente.
Mentre il tenente colonnello Petrov quotidianamente a bordo della sua AutoVaz si reca al lavoro nell'industriale Serpukhov, lo stesso mondo coinvolto nei meccanismi della Guerra Fredda inizia a schierarsi anche in contesti diversi da quelli bellici o politici.
La rivalità tocca anche il mondo sportivo con i boicottaggi dei due blocchi nelle edizioni dei Giochi Olimpici di Mosca '80 e Los Angeles '84.
Dal suo luogo di lavoro parecchi metri sotto la superficie stradale, il tenente colonnello Petrov sbuffa nell'aria stantia del suo ufficio una folata di tabacco Belomorkanal e analizza i dati.
Ogni giorno.
Intanto il mondo al di fuori del bunker assiste all'inevitabile escalation della Guerra Fredda, non più ferma a scambi di spie, segreti e microspie che passano da scrivania a scrivania ma si allarga al nucleare, alle basi militari (la crisi dei trenta giorni e la Baia dei Porci che obbligò Kennedy ad un capolavoro di diplomazie col russo Krusciov), alle testate missilistiche armate e puntate sull'avversario e sui suoi alleati.
Quel mondo però che dagli anni'70 si sposta verso gli anni'80 non è tecnologicamente paragonabile ai decenni successivi, nonostante grandi progressi e dispendio di risorse e finanze.
Improvvisamente il mondo si scopre in balia di un bottone rosso, una linea telefonica sempre rossa, perché rosso è il colore del pericolo.
Alla Casa Bianca entra a sorpresa l'ex attore Ronald Reagan e da bravo cowboy stila una lista dei cattivi da combattere sempre; inevitabilmente l'Unione Sovietica dei Soviet e del Pcus è in cima a questa lista.
Sono anni di embarghi, sport che diventa politica, attentati, cervelli elettronici e analisti.
Al Cremlino invece al defunto Breznev succede l'enigmatico Juri Andropov, spietato durante l'invasione sovietica in Ungheria e poi a capo dell'altrettanto spietato KGB.
Stanislav ogni sera nel piccolo appartamento di Frjazino non parla alla moglie del lavoro che fa; semplicemente non può farlo. Siede sulla poltrona sbuffando il fumo acre del tabacco sovietico Belomorkanal.
Non racconta di quanto sia difficile il suo lavoro di analisi nella difesa contraerea, specie ora che i due blocchi incrementano il ricorso alle esercitazioni militari su larga scala.
Stanislav legge sulla Pravda che ora l'Unione Sovietica per il presidente Reagan è l'impero del male.
Il tenente colonnello si chiede quale sarà la risposta del PCUS.
È una risposta la sua, che lo preoccupa e non può raccontarlo alla moglie.
La mattina del primo settembre 1983 Stanislav Petrov dirige la sua AutoVAZ verso il lavoro, nel bunker denominato Serpukhov-15. Non sa che quel giorno lì muterà l'equilibrio futuro della Guerra Fredda.
Quando scende i gradini di cemento appoggiandosi alla ringhiera di metallo il tenente colonnello Petrov non sa che il sistema di difesa aerea ha abbattuto sui cieli della Kamchakta un volo sudcoreano che aveva violato lo spazio aereo sovietico.
La Guerra Fredda non lascia spazio all'errore umano, non lascia tempo per valutare l'errore umano.
I colleghi analisti di Stanislav osservano luci e tracciati, numeri, reazione militarmente corretta.
La notizia passa dai bunker sovietici agli uffici della Cia ai mass media.
La sera Stanislav apprende che quell'aereo abbattuto ha scavato una voragine nei già precari equilibri del mondo.
A bordo del volo sudcoreano c'era anche un rappresentante del Congresso Usa.
Il tenente colonnello si strofina pensieroso i folti baffi scuri. Lui sa che non saranno giorni facili ma non può dirlo alla moglie.
Il presidente Reagan accusa, punta il dito. Il Cremlino rivendica il diritto di difesa del proprio spazio.
Il mondo non è mai stato così appeso ad un filo come nel settembre del 1983.
Verso la fine del settembre 1983 il mondo sta per cadere nel baratro di quella che sarebbe stata la Terza Guerra Mondiale.
Se il caso non avesse deciso diversamente.
Il 26 settembre del 1983 il tenente colonnello Petrov arriva al bunker di Serpukhov-15 per il turno di notte, un turno che non è il suo: ha dato il cambio ad un collega malato.
Sa che il clima internazionale nell'ultimo mese ha subito un'escalation verso l'alto e gli analisti come lui quasi si fondono con le luci e i numeri che l'enorme computer OKO, gioiello dell'antiaerea sovietica, elabora ad ogni turno.
Stanislav la notte del 26 settembre 1983 lo osserva come osservava a Vladivostok le grandi navi militari alla fonda.
OKO poco dopo la mezzanotte si accende, nel vero senso della parola; inizia ad elaborare dati, strisce di carta collegati a numeri e luci.
All'improvviso il fumo acre del tabacco sovietico Belomorkanal invade la stanza di pari passo ai colleghi di Stanislav.
Il tenente colonnello Petrov è il responsabile del bunker, sa che tutto quello che sta accadendo è legato ad uno stretto protocollo: deve comunicare ai superiori l'attività missilistica segnalata da OKO.
Stanislav aggrotta le sopracciglia folte e osserva il planisfero plastificato pieno di luci posizionato sopra OKO.
È un ingegnere prima ancora che un analista, è abituato a guardare i dati, i numeri da più angolazioni. Usa la testa, ragiona e accende un'altra Belomorkanal. Ignora gli sguardi dei colleghi che gli chiedono silenziosi cosa fare.
Stanislav attende, aspetta.
Guarda il tracciato che segnala una testata nucleare lanciata dal Montana verso l'Unione Sovietica. Ha pochi minuti ancora prima di avvisare i superiori.
Se avvisasse i superiori il mondo cadrebbe in un nuovo conflitto.
Stanislav è un uomo abituato a ragionare su numeri anche se ai colleghi a volte sembra scorbutico.
Ragiona, lo ha sempre fatto.
Stringe fra le mani la striscia di carta con i dati elaborati da OKO. Osserva il grande planisfero.
C'è un numero che gli impedisce di avvisare i superiori, che non gli fa sentire le domande dei colleghi.
Uno. Un numero primo.
Ma perché uno.
Il tenente colonnello Petrov temporeggia; ipotizza un numero superiore di razzi per un attacco missilistico su larga scala, uno solo rappresenta un controsenso.
Il fumo acre del tabacco sovietico ora invade anche le altre stanze, mentre in tutto il mondo la notte del 26 settembre è una notte come tante altre.
Stanislav sa che un missile della portata di quello segnalato da OKO impiega mezz'ora per terminare la sua traiettoria. Anche quando ne appaiono altri quattro.
Temporeggia, aspira rabbioso una boccata di Belomorkanal, ragiona.
Mancano le conferme dai radar di terra. Non è un particolare, è l'essenziale.
Anche se il tempo di assottiglia, la mezz'ora prima dell'eventusle esplosione si accorcia, scorre veloce il doppio.
Stanislav guarda i colleghi che aspettano un suo ordine; non partirà nessun ordine dal tenente colonnello Petrov.
Spegne la sigaretta e parla.
Stanislav non è disubbidiente, non lo è mai stato; mai un solo giorno della sua vita.
Anzi, l'esatto opposto. Da bravo soldato.
Soldato dell'Armata Rossa in tempo di Guerra Fredda, quando un no ad un ordine semplice poteva costare anni di Siberia, l'oblio pubblico come pena eterna.
Stanislav lo sapeva.
Il tenente colonnello si assume la responsabilità di non avvisare i superiori, di non armare nessuna mano. Tutto deve procedere come una notte qualunque. Una qualunque notte passata ad analizzare i dati elaborati da OKO.
Il superiore, generale Votintsev, lontano dai colleghi stringe la mano al tenente colonnello Petrov; Petrov lo sa che la notte del 26 settembre 1983 rimarrà chiusa nelle pareti di cemento del bunker Serpukhov-15.
Nemmeno l'Urss ne avrebbe mai parlato.
Il tenente colonnello sapeva che quella notte assumendosi tale responsabilità si sarebbe condannato ad un oblio lungo.
Verrà lentamente messo da parte dalla squadra degli analisti e nel 1984 verrà pensionato.
Stanislav Petrov si chiude nel suo appartamentino di Frjazino con la moglie che lo vede solitario, silenzioso, rabbioso. Non può parlarle di quando ha salvato il mondo ragionando da ingegnere e non da soldato.
Passerà in questo silenzio rabbioso i giorni della pensione fino alla morte il 19 maggio del 2017, non spostandosi mai da Frjazino.
Forse la verità sulla notte del 26 settembre 1983 il tenente colonnello Petrov la sapeva già.
OKO non era infallibile, quella notte fu tratto in inganno da uno strano fenomeno di rifrazione della luce solare a contatto con le nubi; l'errore di OKO fu in realtà la spia di quanto l'Unione Sovietica fosse sull'orlo della crisi che in pochi anni la porterà alla dissoluzione.
Forse questo Stanislav non lo sapeva ma quella notte sapeva che l'ingegnere avrebbe prevalso sul soldato.
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