Tortellini ripieni

Mi concedo un ricordo, oggi che sta passando un altro giorno di quarantena.
Uno di quei giorni, il sesto forse, il decimo, non lo so più bene, ho il calendario e la percezione del tempo che passa un po' con l'ora legale e un po' con l'ora solare.
Me lo concedo oggi, perché oggi per pranzo ho preparato i tortellini ripieni, in modalità quarantena per occupare un po' testa e tempo.
Come qualche altra decina di milioni di connazionali, ho scoperto l'importanza di avere in dispensa lievito, farina e uova, come se "gluten free" ora non fosse più il caso di dirlo.
Mi concedo un ricordo piccolo come lo ero io allora, ma grande, enorme, profumato di pasta fresca all'uovo fatta in casa, col profumo vicino di mia madre.
Un ricordo che mi conduce diritto al sabato perché quello era il giorno in cui la mamma era a casa due giorni di fila ed era il giorno che la cucina di casa cominciava a produrre: una pentola (è indifferente il formato, a rotazione venivano usate tutte) sopra ognuno dei cinque augelli del fornello.
Salato, dolce, primo, secondo o dolce, qualsiasi cosa venisse servita a tavola aveva la firma indelebile di mia madre; la farina, il ragù, l'arrosto e le patate appena bruciate sui bordi, una torta con una caffettiera di caffè.
Il sabato però era la pasta fresca all'uovo; ho sorriso oggi aprendo il frigo per prendere le uova pensando se questa ricetta in un feriale qualunque la mamma l'avrebbe fatta.
No, assolutamente no, ma i motivi erano validi.
La farina ormai è presente in quantità industriali in ogni dispensa quindi anche nella mia.
La appoggio sulla base di acciaio e la lasciò cadere un po' alla volta, ne guardo la polvere in controluce muoversi e ricadere.
La montagna col buco in mezzo è pronta per romperci dentro le uova. Mia madre si raccomandava sempre di mettere un uovo per ogni etto di farina anche se ne metteva sempre quattro.
Mentre muovo il composto facendo "sparire" le uova nella massa di farina ripenso a quando, a casa, mi mettevo di lato ad osservare mia madre muovere con fatica le mani, raccogliere la farina che cadeva dai bordi di quella montagna e ributtarla dentro e continuare ad impastare. 
Io ero di lato al tavolo verde di formica e osservavo sempre, una costante, l'angolo della vecchia madia in legno decorato da mio fratello con i doppioni delle figurine Panini, non tutte.
Solo quelle delle squadre di Serie B; erano più piccole e i calciatori erano fotografati a coppie. 
Tornavo all'impasto prestando un dito alla mamma per sentire quanto morbido fosse l'impasto, così come oggi guardando il giardino e impastando ho chiamato mio figlio per farmi prestare un dito dei suoi.
Nell'ora che ho fatto riposare l'impasto ho bevuto un caffè come lo faceva la mamma, e penso ogni casalinga vissuta sulle due sponde del Po, con quella crema di zucchero e qualche goccio del primo caffè che sale nella caffettiera.
A casa aveva un sapore diverso ma forse gli anni hanno mutato qualche sfumatura del sapore.
Continuando a concedermi il meglio di quel ricordo ho preparato l'impasto discutendo con mio figlio di calcio, dell'Udinese che non compra mai un calciatore come Messi visto che Cristiano Ronaldo gioca già nella Juventus.
Con l'impasto al riparo da luce e sbalzi di temperatura è arrivato il momento di preparare l'impasto, qualcosa di corposo, con il sapore delle campagne padane.
Come mia madre con me ho chiesto l'ausilio a mio figlio per tagliare burro e lonza da fare andare un po' in padella.
Preparando la boule con dentro un altro uovo, il parmigiano reggiano e l'accoppiata mortadella- prosciutto.
Mio figlio osserva curioso i decori sul muro in pietra della cucina con la stessa curiosità con cui il guardavo i dettagli sotto la figurina della coppia Piras-Gori con la maglia rossoblù del Cagliari cadetto 1983-84.
Non so se mi incuriosiva o i baffi scuri e folti di Piras, il suo nome per me così strano o lo stemma coi Quattro Mori.
Mentre io ero perso nei miei pensieri calcistici e mio figlio si lancia in una lunga dissertazione sulle pietre a lui conosciute (a volte il loro mondo ha sfumature così colorare che servirebbero anche a noi adulti), l'impasto per i tortellini è pronto.
Ne assaggio una cucchiaiata perché un bravo cuoco assaggia sempre tutto quello che prepara.
Ho chiesto a mio figlio di prendere la terrina con l'impasto.
Come una versione maschile un po' arrotondata dalla quarantena forzata di Nonna Papera ho staccato piccoli pezzi dall'impasto per tirarla con il mattarello. 
Mia madre non voleva fare seccare l'impasto intero e muoveva velocemente le braccia sulla tavola verde si formica.
Io sono rimasto solo a tagliare piccoli quadrati di quattro centimetri circa di lato sui quali poso una pallina di ripieno.
In giardino mio figlio si sta sfogando da questa sosta forzata, disputando una lunghissima partita a calcio fra due squadre dai nomi improbabili.
Il momento difficile è sempre chiudere il tortellino; mia madre lo faceva sembrare un gesto normale, quotidiano.
A me vederla chiudere quel quadretto a triangolo e avvolgerne l'angolo superiore su se stesso sembrava un gioco di prestigio, come quelli di Silvan che passava la televisione.
Ho creato il primo anello con una certa difficoltà e nell'osservare quell'anello morbido mi sono sentito quasi orgoglioso di me.
Prima di cuocerli ho seguito uno dei migliori consigli materni.
Ne ho preso uno delicatamente e tenendolo nel palmo della mano sono uscito in giardino, sedendomi un po' al sole. Guardando l'interminabile partita di pallone di mio figlio ho assaggiato la mia creazione, cruda come mi ha sempre detto di fare la mia mamma.
Il sapore di campagna, di sole, di casa mi è esploso in bocca.
Come allora, guardando la figurina coi Quattro Mori.
Per pranzo è bastato buttai nell'acqua che bolliva e lasciarli nuotare cinque minuti, mai di più.
Come anche i migliori cuochi dicono, e anche mia madre che della nostra cucina era il capo indiscusso, i tortellini ripieni vanno serviti nudi, al massimo una noce di burro.
E così è stato. 
Non ho abbinato un bicchiere di rosso ma sono astemio e questo è un altro discorso.

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