Loreo, il mio paese, è uno dei tanti paesi piccoli, abitati da un discreto numero di persone senza sovraffollamento, sparsi nelle frazioni altrettanto piccole che riempiono argini, campi, e centro storico.
È un paese piccolo, una delle tante residenze di campagna dei Dogi della Serenissima che del loro passaggio hanno lasciato il segno tangibile nei palazzi che si affacciano sul canale, tutt'ora dipinti scegliendo una delle infinite tonalità di rosso veneziano come da antico decreto, nei portici che si snodano lungo il centro del paese e infine nelle carceri, tratto dominante della presenza veneziana in tutti i territori occupati, parenti piccole dei tremendi "piombi" di San Marco.
Io sono cresciuto li, in una via stretta dove era impossibile passare se non a piedi, che da un lato usciva sulla piazza della chiesa, il Duomo la cui facciata fu disegnata dal Longhena e dall'altra mi portava sotto i portici, seguendo in parallelo tutto il corso, almeno per la parte che scorre in centro, del Naviglio.
E come tutti i miei coetanei e tutti quelli prima e dopo di me, ho passato lì, in quei due punti focali di Loreo la mia infanzia.
Loreo è un paese, come tutti i paesi della penisola, composto in parte da pensionati e in parte da comari un po' pettegole, famiglie numerose e persone diventate loro malgrado personaggi.
Quelle persone che tutti conoscono ma che per motivi inspiegabili poi si scopre che non si sa poi molto di loro.
Io sono anche adesso "il figlio di Mario, il muratore", che a distanza di tanti anni mi rende fiero del mio papà e del mio paese, perché questo tipo di etichette non è uno sminuire qualcuno, anzi, è una sorta di certificazione doc.
Mio padre e mia madre, "Nelly, la figlia del capostazione" giusto per inquadrare meglio anche lei, hanno sempre vissuto in paese, vissuto il paese, tornandovi quando la vita si è messa di traverso complicando magari alcuni aspetti.
E con questo tipo di vita hanno conosciuto tutti gli abitanti del paese, quelli più fortunati e quelli più in difficoltà; li ho visti sempre aiutare tutti, magari girando i vestiti che il papà o io e mio fratello non usavamo più, fare un piatto di pasta in più per questa o quella persona, dare sale e zucchero alla pasticceria la domenica, quando la loro scorta finiva e l'haccp odierna non esisteva e il lavoro nel settore alimentare era più semplice.
La ricompensa? La domenica sera vassoi di pasticcini e leccarde di crema, che il lunedì la pasticceria era chiusa e il signor Adriano che coniava per primo un soprannome tutto mio, Gianca cui tengo moltissimo per quel che rappresenta.
A volte papà per quei lavori che da solo non poteva fare chiedeva aiuto a qualche amico, quelli che poi stagionalmente ti portano salumi, ortaggi, uova, e spesso mi capitava di osservarne uno ai miei occhi particolare, quasi strano.
Ma non strano perché cattivo, maleducato, il contrario; era strano perché sembrava un bambino chiuso per qualche motivo che non comprendevo in un corpo da adulto.
Papà, mamma, il paese, lo chiamavano tutti Momi, senza un nome vero, solo Momi.
Lo vedevo un po' dappertutto darsi sempre da fare.
Loreo come tutti i paesi è pieno di bar, ognuno con la sua clientela, ognuno coi suoi tavoli per la briscola o la madrassa, un paio di pizzerie col forno solo a legna.
Ecco io il signor Momi lo vedevo scaricare casse di bevande quando la commerciale che riforniva questo o quel locale effettuava la consegna, lo vedevo spaccare la legna anche se i gradi erano quasi 40 e l'afa mozzava il respiro.
Il signor Momi erano piccolo, davvero basso di statura; arrivava a fatica ad un metro e sessanta di altezza, magro come un chiodo, e il sorriso sempre aperto a mostrare gli unici due denti presenti nella bocca.
Io lo vedevo attraversare il vecchio ponte girevole con la camminata così ciondolante che mi ricordava sempre il gioco di Ercolino Sempre in Piedi, che dondolava ma non cadeva mai.
Sapevo che abitava in un quartiere un po'lontano da casa mia con la sorella, il marito e i due nipoti.
Ovviamente li conoscevo tutti e tutti conoscevamo loro come giusto che fosse. Della sorella mi impauriva all'inizio il soprannome, "sfregiata", poi ho scoperto che era amica di mamma e l'ho scoperta uguale al fratello e non mi ha fatto più paura.
Momi aiutava anche il cognato, robivecchi, soprannominato in stile Usa "Fred" dalla sit com "Sanford & Son", robivecchi americano diventato tutt'ora autentico cult fra gli amanti delle sitcom anni '70-'80.
Aiutava tutti davvero, forse inconsapevole della fatica, sicuramente di cuore, senza chiedere mai una lira in cambio. Lavorava davvero tanto e specie d'estate a pranzo si fermava da noi; puliva il sagrato della chiesa sotto il sole bassopolesano e la mia mamma non sopportava di lasciarlo andare senza dargli un po'di ristoro.
Io lo osservavo divertito mangiare una quantità enorme di cibo per un corpo così piccolo e pensavo che parte del cibo la nascondesse sotto il cappello, che non toglieva mai.
L'appetito del signor Momi era quasi una leggenda quasi quanto la passione per i film di Bud Spencer.
Momi non sapeva parlare bene, non parlava bene l'italiano, il dialetto era pure qualcosa di incomprensibile ma era difficile davvero non capirlo.
Quando parlava o semplicemente osservava il signor Momi piegava la testa di lato e il cappello un po'gli scendeva.
Quello strano omino coi pantaloni tirati fin quasi sullo sterno era sui malgrado la mascotte del paese, la persona cui non si poteva non voler bene.
Il sabato mattina se andavo a bere il caffè latte al bar col papà se Momi era nelle vicinanze facevamo assieme la colazione perché in fondo lui era parte della mia famiglia così come era parte delle altre famiglie del paese.
Anche quando ho trovato il primo lavoro, quattordicenne nella pizzeria del mio paese dal nome tanto roboante quanto indimenticabile, "La Bomba Atomica", Momi mi è sempre sembrato un Peter Pan sgrammaticato, imprigionato nel corpo di un adulto.
Una cosa cui non poteva rinunciare era prendere la corriera per Taglio di Po, un paesino poco lontano da Loreo, una volta a settimana per portare i fiori sulla tomba della mamma.
Da solo, come se quell'unico giorno a settimana Peter Pan diventasse adulto.
Momi nella pizzeria tagliava la legna per il forno e scaricava le casse di bibite venendo ricompensato con polenta e salsiccia alla griglia e i fagioli bianchi con la cipolla, piatti di cui era ghiotto.
Sorrideva a tutti perché tutti gli volevano bene, senza chiedere nulla in cambio.
Il signor Momi frequentava il "Caffè Commercio", il locale più grande del paese, con la televisione e i tavolini sotto i portici.
E lì, una sera d'estate mentre aspettavo che il barista mi desse dal grande frigo dei gelati la coppa che avevo scelto, vidi il signor Momi senza cappello.
E lo toglieva con rispetto, quasi fosse un rito tutto suo.
Appoggiava il cappello sul tavolo e aspettava che il barista portasse il bicchiere d'acqua gassata. Fumava la prima sigaretta, la prima di una lunga serie di Alfa senza filtro, velenosissime sigarette italiane a costo bassissimo.
E quella sera che Cesare, il barista, mi stava per dare la coppa gelato alla televisione trasmettevano un film con Bud Spencer e Terence Hill.
Il signor Momi adorava la coppia di attori, di più adorava Bud Spencer che per lui non era solo il gigante buono che mena le mani solo se costretto, no, per lui era "El cicion", così alla veneta, semplicemente.
Si rizzava sulla sedia, ricadendo sullo schienale e ridendo divertito.
E osservandolo per la prima volta senza cappello risi anche io di quella testa piccola e tonda, completamente priva di capelli.
Il signor Momi poi nel cappello non nascondeva il cibo della mia mamma, semplicemente proteggeva la testa dal sole e dal caldo.
Il signor Momi era, ai miei occhi, un pò più adulto ma sempre quella persona che è stata amica della mia famiglia.
Momi ha deciso di andarsene come meglio non poteva, una sera di inverno e nebbia dopo una scorpacciata di polenta e salsiccia, sorridendo alla pizzeria.
Modo migliore non poteva scegliere.
Il signor Momi quella sera indossava il cappello.
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