Margherita al caffè

 La domenica è un giorno di festa.

Sarebbe anzi, visti i ritmi forsennati cui siamo stati costretti ad abituarci.

Abbiamo dovuto rileggere e adattare il calendario gregoriano, vestendo i giorni feriali di domenica.

E allora ecco, un giorno a caso è un giorno di riposo che si fa festa, una sorta di domenica laica 

Un giorno che siamo a casa, io e i miei figli e ci guardiamo, sorridendo occhi negli occhi e decidiamo cosa fare che il menù sarà "come quello delle feste".

E non c'è festa che non si rispetti che nel menù non comprenda un dolce, uno qualsiasi.

"Papà, possiamo fare un dolce per pranzo?".

Domanda secca del figlio più piccolo.

Gli occhi si sono fatti enormi nel chiedermelo e mentre li guardo vedo, un metro più indietro, anche la complicità col fratello che ormai diciassettenne raffredda un po' di più le emozioni, specie quelle più intime e domestiche.

"Va bene, mi sembra una buona idea, però la scelgo io perché ho voglia della torta al caffè!"


La torta Margherita aromatizzata al caffè era la torta della domenica mattina, quella in cui ci si ritrovava tutti a casa, e la mia mamma dopo aver preparato una quantità di caffè latte degna di un plotone, le due tazzine di solo caffè che rimanevano le trasformava in una torta alta, soffice, di un colore marrone dolcissimo.

È stato per tanti anni un rituale madre-figli, si perché prima che toccasse a me il compito dell'aiutante di campo, lo stesso compito lo svolgeva mio fratello.


"Adesso organizziamo il piano di lavoro e poi ci lanciamo nella nostra torta, vi va?"

Lentissimo è il loro muoversi silenziosi per casa per procurare in una volta sola tutti gli ingredienti necessari.

Io lancio la connessione bluetooth dal mio smartphone in modo che lanci il suo segnale alla cassa che domina il salotto così che la musica inizi e ci faccia compagnia.

"Senza musica cari miei non si lavora bene!"

Io lo dico convinto, loro scuotono la testa consci del padre toccato loro in sorte.

Pulisco il piano di lavoro in acciaio della cucina e lascio intanto che la musica mi raggiunga, mescolandosi alle voci confusionarie dei miei figli.


La domenica mattina la torta era un rito laico prima della messa, quel rito che si celebrava su di un altare di formica verde imbiancato dalla farina sparsa dalle mani di mia madre come fosse una benedizione.

Il tavolo di formica verde diventava il fulcro della cucina materna; impastava, tagliava, lavorava ogni alimento possibile.

E i risultati erano sempre ottimi.


Dopo che il papà l'aveva stretta forte, nonostante la raccomandazione "Mario me racomando, no forte ..", ascoltavo la caffettiera iniziare il suo borbottio profumato. Era quasi l'inizio della torta; la mamma prendeva dalla madia una tazzina piccola di ceramica bianca che a mia memoria è sempre stata sbeccata, e vi versava tre cucchiaini di zucchero e due, solo due, del primo caffè che la caffettiera iniziava a produrre.

Poi la piccola "ciccera", tazzina, spariva nella mano sinistra di mamma che con la destra iniziava a mescolarne il contenuto così veloce fino ad ottenere una crema nocciola, densa e dolce che andava a decorare il caffè macchiato del papà. A me restava l'ottima consolazione di pulire tazzina e cucchiaino.


Io però sono figlio del mio tempo e mentre preparo due capsule di caffè con la macchinetta elettrica mi rendo conto che per strada ho perso un po' di poesia.

I due piccoli mi raggiungono finalmente con farina, zucchero e una bustina di lievito, "me racomando, queo dea Pane Angeli, vanilinato...", che continua ad essere una presenza costante anche nella mia cucina.

Dal frigo prendo le due uova che mi servono e un vasetto di yogurt, non magro e bianco come ricetta, ma al caffè per dare una spinta alla futura fetta di torta.


"Papà posso mettere Natural, che questa musica non mi piace?"

Ora ho due strade davanti: o lascio stare la torta e mi perdo in un discorso ad ampio spettro su quanto io adori De Andrè e il significato dei suoi testi o acconsento al cambio di genere per quieto vivere.

Li guardo, sorridi, cambio selezione dallo smartphone.

Imagine Dragons sia, per la loro gioia; la musica da loro lo sprint necessario per recuperare terrina, tortiera e carta forno.

Mentre rompo le due uova e le mescolo ai due etti scarsi di zucchero penso che a me toccava ascoltare in silenzio Julio Iglesias o Raoul Casadei, che poi in realtà mi faceva divertire davvero.

La mamma iniziava a lavorare uova e zucchero con la frusta a mano intonando "...e viene sabato e poi domenica e finalmente la felicità..."  mentre io mi appoggiavo al tavolo ed iniziavo ad osservarla, cercando di accompagnarla fischiettando. 


Ora faccio lo stesso con la frusta ma non canto per pudore, quello lo fanno i due piccoli: voce il più grande, finta chitarra il più piccolo.

Mentre mi chino per recuperare l'olio di semi di girasole dalla dispensa sotto il lavello, giusto un bicchiere non di più, chiedo l'aiuto dei miei aiutanti.

Uno versa nella terrina le tue tazzine di caffè, l'altro il vasetto di yogurt; io completo il tutto versando l'olio, esattamente come da bambino.

Mentre magari da Casadei si passava a "Manuela" di Iglesias la mamma frustava velocemente il composto che riempiva la terrina fino a renderlo omogeneo. Perfettamente liscio e privo di grumo, spumoso.

Compiamo anche noi la stessa azione ma con il doppio del tempo; il piccolo vuole usare le fruste e ci alterniamo, dilatando i tempi necessari mentre gli Imagine Dragons lasciano spazio ai Kiss perché ora è la mia playlist che subentra. 

Tengo la terrina ferma con le mie mani e la osservo.

Ora uso una in materiale di recupero, scarti della canna da zucchero, mentre la mamma usava solo una terrina, Quella terrina con la maiuscola, di ceramica bianca, ondulata, con sbeccature sul bordo a testimoniare le centinaia di impasti visti e vissuti.

E due fiori rossi, scoloriti a decorare un bordo.


Dopo aver amalgamato l'impasto toccava a me di nuovo. Prendevo il pacco di farina con due mani e mentre la mamma puliva sotto l'acqua la frusta per riaverla pulita immediatamente mi avvicinavo al tavolo.

Lei si asciugava le mani sul grembiule legato in vita dalla cui tasca usciva sempre un pezzetto di stoffa e uno o due gonfietti di orzo.

I gonfietti di orzo erano le caramelle dolcissime che spesso, per il loro costo, venivano date come resto per le lire nelle farmacie. Quadretti arancioni imbustati in una plastica appiccicosa e trasparente, buonissime.

Io uso la carta scottex prima ancora di un canovaccio ma spesso asciugarmi le mani, palmo e dorso, sulle tasche dei pantaloni lo faccio ancora.

E con la mamma pronta nuovamente con la frusta in mano io versavo i circa trecento grammi di farina nel composto omogeneo presente nella terrina.


Mentre il più grande verso piano la farina io lavoro l'impasto con la frusta e poi con un cucchiaio leccapentole. Lavoro veloce, dal basso verso l'alto per amalgamare il tutto senza lasciare grumi o residui di farina sul fondo.

Non faccio come la mamma che imburrava la tortiera a cerniera ma la rivesto con carta da forno, così da alleggerirla e sporcare meno.

Versato il tutto nella tortiera stessa non ci resta che infornare nel forno che avevo già impostato a 180° e aspettare i 40 minuti necessari a cuocere la torta.


A casa non mi restava che ripulire il cucchiaio dall'impasto mentre la mamma ripuliva la tavola verde di formica. 

Il papà rientrava giusto per vedere la torta finita, posizionata calda e profumata su un piatto di portata dall'età indefinita, tutt'ora presente nella madia paterna, decorato con scene di caccia colore blu.

L'ultimo passaggio era una copiosa spolverata di zucchero a velo che la rendeva ancora più appetitosa.

Chiedo ai piccoli se vogliono anche loro lo zucchero a velo ma non c'è verso di convincerli e opto per lo zucchero a velo solo sulla mia fetta di torta quando finalmente la mangeremo.

Mentre loro spariscono in giardino, io posiziono la torta su di un piatto di portata e inizio a pulire stoviglie e piano di cottura, la mia playlist si sposta e diffonde le note di "Se mi lasci non vale", nuovamente Julio Iglesias, la mia mamma.








Commenti