Il mio pallone nero e azzurro Supertele, seguendo una legge arrodinamica tutta sua, nove volte su dieci terminava la sua corsa rimbalzando pigro in una selva di gambe femminili e gambe di legno o metallo, quelle delle sedie su cui il gruppo di donne stava seduto, incuranti dell'aria calda che la strada chiusa sui tre lati non lasciava andare via.
Per raccogliere il pallone leggermente sformato dovevo inginocchiarmi facendo attenzione a non spostare o toccare i sacchetti che erano posizionati per terra, uno per ogni sedia, uno per ogni donna seduta su quella sedia, a piacimento.
Ogni sacchetto conteneva dei gomitoli di filo dai quali partiva verso l'alto un filo all'apparenza interminabile che terminava la sua corsa all'interno di un grosso ago o a volte di un piccolo uncino di metallo, entrambi on una grande cruna.
Preso il pallone sottobraccio mi allontanavo da quel gruppo di donne col dubbio su quale fosse lo scopo di quel lavorare minuziosamente i gomitoli di cotone colorato.
Pensieri quotidiani, solo estivi, che mettevo in un angolo calciando velocemente il Supertele verso il lato più lontano della strada dove mio cugino mi aspettava con gli altri amici per terminare l'interminabile partita a calcio.
Il gruppo di donne alle mie spalle non si è scomposto più di tanto per quella breve interruzione e continuano a parlare fra di loro e a muovere velocemente il piccolo uncino.
Nonostante il caldo afoso dell'estate, il gruppo non si sposta dal cono d'ombra del condominio al loro fianco, luogo di residenza di almeno metà di quelle donne.
Le altre risiedono nel condominio vicino, uguale, popolare, grigio, che ha resistito all'alluvione del 1951.
Palleggio col mio piede buono, il destro, uno, due, tre volte. Lascio rimbalzare la palla per terra e colpendo il pallone con il collo del piede lo faccio arrivare fra le braccia di mio figlio, dall'altra parte del giardino: avessi calciato il mio vecchio Supertele avrei dato vita ad un effetto stile galleria del vento e avrei fatto gol.
Invece il pallone è di cuoio e pelle, bianco griffato con le stelle della Champions League e finisce fra le mani sicure di Denis.
Fa caldo, il caldo primaverile che esplode all'improvviso, quasi rabbioso, come se l'inverno lo avesse tenuto nascosto e coperto.
Calcio nuovamente di collo destro il pallone griffato ma fa troppo caldo e alzo bandiera bianca.
E poi devo cercare una cosa nella grande cassapanca in salotto.
Nonostante il caldo torrido dell'estate loredana, a Loreo l'estate sa essere cocente e appiccicosa con l'afa a decidere i ritmi di tutti, di chi lavora e chi gioca.
Io giocavo ore intere attorno al mio pallone ultraleggero, colpendolo con la punta dei piedi, facendolo andare ovunque.
Abitavo in un piccolo complesso di edilizia popolare anni '50, sorti a ridosso della Cartiera del Polesine che letteralmente abbracciava il mio piccolo quartiere. Con gli altri amici si giocavano interminabili partite a calcio su di un campetto di sola sabbia di pirite, rossastra e sottile che si infilava dappertutto.
Si giocava incuranti del sole e delle ginocchia sbucciate.
Era l'estate del1982, quella culminata con la gloria mondiale del Bernabeu la notte dell'11 Luglio.
"Io sono Paolorossi (tutto attacco come a suo tempo Giggiriva)", era l'input cui seguivano i nomi a caso degli eroi di Spagna. Io giocavo in porta e quasi sempre volevo essere Dino Zoff, portiere eterno del calcio azzurro, anche se la mia simpatia andava al suo secondo Ivano Bordon, veneto, interista, destinato ad una carriera da secondo ma campione del mondo lui pure.
Scelti i nomi si iniziava l'incontro che aveva lunghe pause per recuperare il pallone o discutere su un rigore o meno, atteggiamento antesignano dell'attuale Var.
Seduta nella sua sedia di formica verde con le sottili gambe di acciaio fra quelle donne vi era pure la mia mamma, che indossava gli occhiali per vedere bene dove fare entrare correttamente l'ago dalla grossa cruna nel tessuto per dare regolarità al lavoro finito.
Per come la vedevo io era un passatempo difficile, per il quale necessitavano dita buone, occhi di più e buona memoria perché quello che la mia mamma faceva con quell'ago dalla grossa cruna era un "lavoro di crocette" e nulla più: sbagliavo.
Era punto e croce. Si lavora sul centimetro quadrato per dare uniformità al disegno una volta ricamata tutta la superficie del tessuto.
L'insieme di quelle donne operose e apparentemente silenziose, sentivi la loro voce nell'afa estiva solo se ti avvicinavi al gruppo di donne e sedie, intente a capo chino a sgranare un rosario laico sembrava un dipinto neorealista in realtà meno prosaicamente le stesse donne, la mia mamma, le mie vicine, sposavano l'arte del punto e croce all'antica arte del "far filò", che nulla in questo preciso momento c'entra col filato.
O meglio il "far filò" deve il suo nome alle chiacchere, perché di quello si tratta in fondo, delle operaie tessili durante la filatura.
Dalla cassapanca estraggo un sacco di plastica piuttosto voluminoso; dentro c'è una tovaglia bianca con disegni floreali melange, sui toni del grigio. La apro per stenderla all'aria aperta prima di riportarla al papà.
È grande, penso per un tavolo da dodici, un pezzo della dote nuziale che la mamma ricamò a me e mio fratello in quei pomeriggi a far filò.
L'ago dalla grossa cruna della mamma ha intrecciato cm quadrato per cm quadrato il filo fino a renderlo disegno. Mentre la stendo sul filo passo delicatamente il palmo della mano sui disegni in rilievo. Avvicino il naso e l'odore di triellina ancora mi punge le narici.
Mentre il sole andava a nascondersi dietro il condominio io scendevo le scale con il mio Supertele sottobraccio e correvo in garage a prendere la sedia alla mamma e la posizionavo con le altre che già c'erano davanti l'ingresso del palazzo a semicerchio.
Ecco, questo era il primo passo del "far filò", le sedie all'ombra sull'uscio, il resto era contorno: punto croce, merletti, legumi da aprire, pannocchie da sgranare, io che mi perdevo fra la sabbia rossastra a fingere di essere Zoff o Bordon.
La mamma apriva il pacco di carta velina, scrollava la tovaglia e la metteva subito in lavatrice per togliere l'odore di triellina, usata per fissare nel tessuto la stampa disegnata.
Poi una volta asciugata la stirava e si metteva a contare i piccoli fori nel tessuto e a scegliere i fili e in pochi giorni dava vita a bellissimi quadri e tessuti ricamati, intrecciati.
Tiro il pallone con le ultime tre dita del piede destro, il mio piede, la palla griffata prende un giro largo rispetto i pali della porta, pare andare oltre la rete che separa il mio giardino da quello del vicino, il campetto in sabbia di pirite dal terreno della cartiera, invece a pochi metri dalla porta rientra verso la stessa ed esce un gol da Champions League, o vecchia Coppa dei Campioni.
Chiudo la tovaglia, ben piegata, nella busta di plastica sottovuoto, la stiro bene accarezzandola con le mani, mi soffermo con l'indice su un petalo a forma di cuore, solitario.
Lo ha ricamato la mia mamma come una firma sulla tovaglia mia e su quella di mio fratello.
Chiudo la busta, sorrido, sento Denis in giardino calciare la palla contro il muro innumerevoli volte.
La tovaglia tornerà a casa, vicino agli altri ricami della mamma.
Peccato che nessuno più ora scenda in strada a "far filò".
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