Carlo e la sua bici strana

La palla rotola veloce, il leggero dislivello che porta la strada stretta in cui abito verso la piazza della chiesa le fa prendere velocità.
Le mie gambe sono ancora giovani, sono corte, faticano a prendere la stessa velocità della palla, che rimbalza irregolare ora su un ciottolo, ora su di un sampietrino sporgente.
La palla arriva, come altre volte prima e dopo, all'ingresso della chiesa con la facciata del Longhena, rimbalzando di lato quasi per rispetto, verso la casa bassa collegata alla chiesa dalla vecchia sacrestia. Io la rincorro senza paura, la mamma mi osserva da dentro la nostra via, al fresco dell'ombra, tranquilla. La piazza è chiusa alle automobili e può permettersi la tranquillità di guardarmi rincorrere la palla da lontano.
La palla per effetto dell'ultimo rimbalzo rotola stanca verso la casa bassa, terminando la sua corsa sotto una delle sue finestre.
Finalmente la raggiungo anche io.
"Ciao Gianca, cosa fai?"
La voce mi arriva dalla finestra, è giovane, tranquilla, la conosco.
"Ciao, mi è scappata via la palla!"
Lo saluto come mille altre volte, so che sopra la finestra c'è uno stranissimo orologio con delle pigne di legno che penzolano verso il basso attaccate a delle catenelle, è un cucù, stranissimo.

L'uscita di scuola è un vialetto corto, con pochi alberi e un gazebo in legno posto giusto davanti all'ingresso. Mio figlio lo vedo da lontano; ha dieci anni ma è più grande di una delle due maestre che lo accompagnano.
Alza un braccio per farmi sapere che mi ha visto e sorride allegro.
Cominciano ad uscire svelte tutte le classi e per ultima la sua. 
Lo vedo che è assieme alla sua unica compagna di classe, si china verso di lei e le dice qualcosa. Lei sorride divertita.
Aspetto che escano con calma, non mi muovo per non accalcarmi con gli altri genitori ed intasare l'uscita. Mio figlio mi raggiunge con la sua compagna di classe ridendo divertiti entrambi.
Lei allarga gli occhi azzurri e gli racconta con lo sguardo una serie di storie che lui conosce senza bisogno di sentire le parole.
Entrambi si fermano, devono per forza dividersi. Il saluto è una carezza di mio figlio sul viso dell'amica.
Lei allarga il suo sorriso e spinta dal papà si avvicina al loro furgone.

La signora Jole, Carlo e la sua bici strana sono sempre, anche adesso che di anni ne sono passati tanti, quei sorrisi che mi scaldano il cuore.
La signora Jole chi è? Una vicina, di più, un'amica di mamma che nel momento del bisogno (l'esplosione della nefrite della mia mamma e purtroppo l'ingresso nel mondo medico dell'emodialisi) è apparsa sulla porta e non ci ha mai abbandonati. È stata una tata particolare, la mia tata particolare. Mio fratello coi suoi otto anni più di me godeva già di un po'di indipendenza ma io ero piccolo e dovevo iniziare a stare in piedi da solo senza tremare.
Una tata piccola, minuta, coi capelli scuri raccolti sulla nuca in uno "chignon", quello che in Veneto chiamiamo "cocon".
Il viso scavato la faceva sembrare più piccola e fragile ma io con lei mi sentivo sicuro sempre, specie quando le prendevo la mano e andavamo a fare, io, lei e suo figlio Carlo, lunghe passeggiate per Loreo, lungo le rive del canale o più avanti lungo le strade bianche che si perdono in tanti poderi di campagna.
I miei genitori si fidavano di quella signora umile e brava, semplice e forte e piano piano la mia famiglia è diventata più numerosa.

Carlo passava intere giornate alla finestra ad osservare la piazza col sagrato della chiesa e l'ufficio postale di fronte; osservava il paese muoversi e leggeva. Leggeva tanto, di tutto, per essere sempre informato su ogni cosa. La sua voce era sempre allegra e mi regalava sempre tanta tranquillità. 
Carlo era bravo con i puzzle, aveva sempre il ripiano della scrivania sommerso di tessere ordinate nel loro disordine colorato e irregolare. Passava le giornate sui suoi puzzle e quando entravo in casa sua lo osservavo silenzioso.
E la signora Jole lo adorava, così come la mia mamma, che qualche regalo glielo portava sempre.
I primi passi li ho fatti fra il sagrato e i portici e la casa di Carlo. Stretto alla mano della signora Jole ho camminato tanto e quando la signora Jole vedeva che le scarpine di tela mi impedivano di camminare mi prendeva in braccio nonostante il caldo e Carlo.
Carlo che si spostava in un modo a me sconosciuto, speciale.
Si spostava seduto su quella che a me sembrava una strana bicicletta senza manubrio, con i tubi di metallo color beige.

La mia palla terminava sempre la sua corsa sotto casa sua, sotto le finestre della casa bassa vicino la chiesa. E lui sempre mi salutava, era la mia convinzione, sentendomi senza vedermi ma ero piccolo per capire la prospettiva e i suoi segreti.

Denis mi racconta che all'intervallo ha letto alla sua compagna di classe uno dei capitoli di "Storie della preistoria" di Moravia e che entrambi hanno riso di tutti quegli animali umanizzati.
"La maestra ce lo fa fare a turno così lei non di sente sola."
Lei è l'unica compagna di classe femmina, è per definizione di tutti gli altri compagni maschi è la loro principessa.
Mentre stiamo tornando verso casa ci supera il furgone grigio della compagna di classe di Denis, la saluta agitando la mano, lei non può fare altro che ricambiare con un sorriso largo, imbragata dalle cinture di sicurezza della sedia a rotelle.
Guardo Denis rimettere la mano nella tasca dei pantaloni e penso che prendersi cura della sua compagna di classe lo aiuti, lui e i suoi compagnia, a crescere e a farli diventare un domani adulti migliori di quelli che ancora si incontrano.

Le strade di Loreo in estate sono afose, con l'aria appiccicosa anche sotto i portici.
L'aria ha una percentuale elevata di umidità e l'afa mi faceva sentire le gambe corte ancora più corte ma più pesanti. La signora Jole mi teneva la mano e con l'altra mano mi sistemava meglio il cappellino bianco e blu. Erano gli unici momenti in cui smetteva di spingere la bici strana di Carlo.
Le mie gambe sono corte, pesano.
"Gianca non ce la fai più?"
No, non ce la faccio più, scuoto la testa ricoperta di riccioli neri.
La signora Jole ha le mani piccole ma forti mi solleva per i fianchi e mi posiziona sul pianale della strana bici di Carlo, fra i piedi del figlio e ricomincia a spingere.
Mentre ci spostiamo sento sulla mia spalla la mano di Carlo, è grande, me la copre tutta.
"Ti diverti Gianca?"
Gianca, diminutivo di Giancarlo, soprannome che è nato e vive solo a Loreo. Non lo amo molto ma il signor Adriano, il pasticcere, mi piaceva molto e a quel soprannome ci sono più che affezionato. Di riflesso mi chiamavano così altri amici di famiglia, come Carlo, appunto.
"Si, non faccio più fatica."
Mi sembra di essere su una piccola macchina che si sposta fra i portici, i ciottoli, gli alberi con gli emoli, e il ghiaino.
La signora Jole spinge la sedia a rotelle del figlio senza fare fatica, lo porta a vedere il mondo attorno. Io lo guardo con lui.

Mio figlio mi chiede se anche io ho avuto un compagno di classe che si spostava con la sedia a rotelle.
"Perché noi in classe a lei le facciamo anche dei dispetti piccoli, così lei può giocare con noi."
È vero, da piccoli il mondo sembra grande, enorme, ma lo sguardo che hanno lo fa sembrare più semplice.
"E lei non si arrabbia?"
Sorride quasi stupito dalla mia domanda.
"No, anzi, a volte è lei che inizia!"
Spero che il suo punto di vista verso chi è in difficoltà non cambi mai.
"No,non avevo nessun compagno di classe in sedia a rotelle ma avevo lui."
Tolgo dalla mia agenda una foto e gliela faccio vedere.
"Io sono il più piccolo, in braccio alla signora."
Guarda aggrottando le ciglia.
"E lui chi è?"
Sorrido, malinconico ma sereno.
"Lui è Carlo!"


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