Movida, lockdown e vaccini

Inizio settimana, marzo 2021, leggendo i quotidiani nazionali mi soffermo su un argomento quanto mai attuale che subito mi rimanda ad un altro altrettanto attuale; leggo di movida, lockdown e vaccini. Leggo del mio paese, l'Italia, quasi interamente in zona arancione, quasi interamente impossibilitato a spostarsi se non per lavoro. Leggo che proprio il lavoro è a rischio, non che in tempi privi di pandemia non lo sia, anzi, ora però sta toccando vette di precarietà preoccupanti.
E non solo per volontà o meno di chi il lavoro solitamente lo crea, "lo dà", no, questa volta tutto quella parte di economia che non è industria, edilizia, artigianato è a rischio, in balia degli eventi.
Tutta la fascia di imprenditori e lavoratori legata al mondo del commercio, della GDO, della ristorazione e delle attività ricettive, si trova in una altalena di situazioni che sul lungo periodo avranno, così come un anno fa ne hanno avute, ricadute drammatiche.
Il problema di fondo oggi, che i vaccini sono lenti ad arrivare a destinazione, contenere il contagio, contenere l'effetto domino della pandemia.
L'idea rilanciata da alcuni governatori di regione è di un lockdown generale il weekend così da bloccare eventuali movide, secondo male di questa pandemia. Come testimoniato dalla stampa e dai social negli ultimi fine settimana in molte città e cittadine italiane la movida ha creato quegli assembramenti che chi lavora nel commercio ad oggi, quotidianamente cerca di evitare, redarguendo spesso chi all'interno di pochi metri quadrati si accalca come se nulla fosse, quasi che quest'ultimo anno fosse passato senza danni.
E i danni ci sono stati, ci sono, e sono tremendi; salute, economie familiari, impiego.
Tutti presentano numeri impietosi che definiscono il quadro della situazione meglio che tante parole.
L'intervento dei governatori punta anche a contenere, quantomeno ridurre, l'effetto libera uscita degli studenti costretti alle lezioni da casa, la tristemente famosa DAD (didattica a distanza), e troppo spensierati a riempire i tavoli dei bar, o i parchi ora che il bar effettua solo servizio da asporto, per cercare di staccare pensiero e vista dallo schermo del proprio PC.
Lecito il desiderio, sbagliato il modo.
Questo ritrovo ormai quotidiano ha la sua triste ricaduta nell'ora successiva all'aperitivo (anche nelle città più piccole in zona gialla i locali facevano registrare un tutto esaurito dalle 16 alle 18 in maniera quasi costante) nella.presa d'assalto ai negozi aperti che sovente devono gestire gli ingressi, gli assembramenti alle entrate.
Il tutto spesso senza l'ausilio delle forze dell'ordine, troppo poche in alcune fasce orarie (qui il discorso tocca in verità altri argomenti quali le difficoltà oggettive che negli ultimi anni incontrano in Italia le forze dell'ordine in termini di uomini e mezzi). 
Stoppare quindi questi momenti di "spensieratezza gratuita" è giusto, giustissimo, però non a discapito di chi lavora, di chi ogni giorno alza la serranda per offrire un servizio, un prodotto. Bloccare nuovamente il paese ad un certo punto diventerà inevitabile ma se nel frattempo (specie ora che ci siamo affidati all'Esercito per l'organizzazione della campagna vaccinale) procediamo con la campagna di vaccinazione l'eventuale nuovo lockdown sarà breve, si potrà rispettarlo "più volentieri" sapendo che dalla pandemia ne stiamo uscendo.
Ecco, la terza voce che mi è venuta in mente leggendo i quotidiani: vaccino.
Possibile che tutti insieme i paesi facenti parte della UE, sulla carta un unico stato, abbiano vaccinato meno abitanti che il Regno Unito e gli Stati Uniti?
Possibile se l'autorizzazione all'uso di questo o quel vaccino passa per l'EMA, l'organismo che gestisce i farmaci in uso e in vendita nell'Europa marcata UE. Possibile se dopo le pandemie più recenti, Ebola e Suina, non è stato creato un protocollo di emergenza che consenta l'uso di un farmaco presentato con un minor numero di test eseguiti.
Cosa che non accade con l'MHRA nel Regno Unito e con l'FDA negli Stati Uniti; in questi due paesi se un farmaco è presentato con un numero inferiore di test eseguiti ma risulta ugualmente efficace in situazioni pandemiche viene messo in uso subito, bipassando la macchinosa macchina burocratica cui ancora si trova l'europea Ema.
Ricordando che Ebola e Suina, poi l'Aviaria, non sono pandemie così recenti pur essendo ancora presenti in determinate regioni del mondo (per l'Ebola si torna al 2015), la domanda da porre all'EMA, alla signora Von der Leyen e ai signori che hanno via via stipulato i contratti di fornitura con le industrie farmaceutiche, è come mai in un lustro non si è intervenuti su questo tipo di protocolli? Come mai si è dato per scontato che nessun tipo di pandemia potesse colpire mortalmente i paesi più progrediti, quelli industrializzati? Perché l'atteggiamento standardizzato si alcune Commissioni ci arriva come "passivo", attendista, come se il rallentamento di un virus comportasse l'automatico disinteresse per lo stesso, voltando tristemente pagina.
Sicuramente a noi che siamo quelli "dei discorsi da bar" certe dinamiche sfuggono, certi accordi non vengono detti, ma siamo in grado da soli che così facendo ad ogni passo avanti compiuto ne corrisponde uno all'indietro, trovandoci così sempre al punto di partenza.




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