23 Maggio 1992

Fa caldo, c'è afa.
"Papà vado a radermi che poi vado a lavorare."
Lo urlo quasi, spostandomi verso il bagno; in salotto il papà sta guardando la tv con le persiane tutte abbassate, nella speranza faccia un po'di fresco.
È primavera ma sembra estate piena, è maggio, il 23 ma sembra luglio. Io come sempre negli ultimi tre anni ho iniziato la stagione estiva, quest'anno un po' di fretta per il caldo anticipato. Entro i primi di giugno del 1992 dovrò sostenere gli esami di qualifica presso l'Istituto Alberghiero, primo step del mio percorso istruttivo-professionale.
Papà dal salotto risponde.
"Ti chiamo io quando sono le 18.30, così fai in tempo."
Sento la musica di uno di quei telefilm in replica, che passano solo quando non c'è nessuno a guardare la TV. La sigla è la stessa di altri momenti di bassa stagione televisiva.
Sento parti di dialogo mentre riempio il lavandino e sciacquo il rasoio. L'acqua, il toc del rasoio sul bordo del lavandino, dialogo. Si ripetono le azioni una, due, tre volte. Sigla del tg, forte, decisa, improvvisa.
"Giancarlo, vieni!"
È già ora di andare, sono tardi?
Il tono di papà era però perentorio, un ordine, velato da una tonalità triste.
Entro in salotto col viso per metà coperto di schiuma.
"Ascolta, guarda!"
Mi giro verso la tv, vedo papà serio, preoccupato, con la fronte aggrottata.
Ascolto. Vedo.
Macerie. Pietre. Bitume. Fumo.
Vedo. Ascolto.
Persone. Persone. 
Chi in divisa, chi vestiti come me, chi piange, chi scava, chi parla.
Papà non parla, è chiuso in un mutismo di massima attenzione e preoccupazione.
Mi siedo vicino a lui.
Vedo. Ascolto.
Rottami di auto. Fumo.
Le telecamere riprendono due cartelli autostradali verdi; uno dice Palermo, l'altro Capaci, sotto un cratere, un buco in cui è caduto un pezzo di Paese.
La voce del cronista racconta, annaspa, spiega, trema.
Recita nomi.
Giovanni Falcone.
Francesca Morvillo.
Rocco Di Cillo.
Vito Schifani.
Antonio Montinaro.
Nomi che chi ha la mia età, anche in quel 23 maggio 1992 alle ore 17:58, conosce bene, a memoria quasi. Li conosce anche il papà che ha gli occhi lucidi. Scuote la testa.
"Giancarlo, non sono tutti così sai? Io li ho fatto il militare fra gente per bene. Amici...."
Piange. So che è affezionato a Palermo, so che li ha fatto la prima parte del servizio di leva negli anni '50. So che si è trovato come a casa, lui veneto in Sicilia.
"Lo so papà, ma sono cambiati i tempi e le persone."
Il giudice Falcone era all'epoca il giudice del maxi processo, la dottoressa Morvillo la moglie che viaggiava con lui, gli altri sono i nomi degli agenti componenti la scorta del giudice.
Alle 17.58 sono diventati all'improvviso tutti angeli per mano della mafia che combattevano e che nonostante tutto continuano a  combattere ancora.
Ho pulito il viso di corsa e ho smesso di radermi. Non ne avevo voglia.
Il 23 maggio 1992 alle 17.58 la mafia ha ucciso dei servitori della patria che si erano giustamente posti dalla parte della legalità, dei giusti.
Quell'attentato ha cambiato il mio esame, il mio tema scritto, la percezione della mia generazione delle cose. Ha chiarito infine quanto già sosteneva Peppino Impastato, che la mafia è una montagna di merda. Ha dato una coscienza agli italiani, addirittura privi in quei giorni orribili di un Capo dello Stato dopo le dimissioni di Cossiga.
È la data che difficilmente si potrà cancellare, immagini che anticiperanno già D'Amelio, altro giudice, altri agenti di scorta uccisi dalla mafia, che non ha avuto in cambio il silenzio che cercava, no.
Quel pomeriggio andai al lavoro silenzioso, servendo a tavoli composti da persone che non avevano voglia di ridere, né sorridere. Gli sguardi smarriti erano rivolti alle televisioni.
Guardai il collega siciliano vicino a me, pensai a mio padre e pensai che aveva ragione, non sono tutti così.





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