11 luglio.... nuovamente

11 luglio, c'è il sole, alto ancora. 
L'ora di cena si allontana e il momento si avvicina.
È la serata che aspettiamo da tutta l'estate. La bandiera tricolore è pronta, ben tesa, davanti la tv.
È tutta l'estate che aspettiamo un momento così, forse in realtà sono almeno un paio di anni buoni per uscire dal periodo più buio.
Certo, col senno di poi sono due tonalità diverse di buio ma che ci han fatto ugualmente partire dal basso. Dal punto più basso.
Il tricolore ha ripreso a garrire con sempre più convinzione attaccato a portiere e scooter,vecchi motorini vintage, località turistiche e città d'arte.
Si chiama passione, tifo, attaccamento ai colori nazionali. 
Non importa molto l'età che hai, che sia 8 anni o quasi 48, che nel mezzo tu abbia costruito la tua vita. Quello c'è anche se, proprio in virtù dell'età che hai, a suo tempo ti iniettavano il vaccino antitifo e ti ricordi ancora il dolore dell'infiammazione. 
Il sole c'è, caldo, afoso, una cappa antipatica di calore. Sai che non sarà così per molto ancora; la giornata farà il suo corso e resterà attorno solo il riflesso azzurrino della televisione.
Azzurro come le maglie dei giocatori dell'Italia contro le maglie bianche degli avversari.
Io mi siedo sul divano, osservo gli spalti gremiti, tantissimi tifosi, bandiere, colori, cori.
E il Presidente della Repubblica in tribuna, serio ma tifoso e sul prato i calciatori, tesi, pronti. Io guardo l'arbitro, posa il pallone sul dischetto di gesso a centrocampo, porta il fischietto alla bocca, si parte.
Adesso non ascolto nessuno, madre, padre o figli che siano; per novanta, centoventi minuti o centoventi minuti più rigori. Servirà il tempo che la gara e i calciatori riterranno indispensabile a terminare l'incontro. Potrei vincere, potrei perdere, di certo questa seconda parte sarebbe più dolorosa (è successo, succederà) e dovrò illustrarne nel caso l'aspetto positivo a mio figlio, un passo oltre l'essere tifoso. 
Seduto sul divano mi agito, guardo fisso lo schermo, escono le peggiori esclamazioni popolari. Passo in svantaggio subito, impreco, impreca mio figlio, sbagliamo anche un rigore, imprechiamo tutti, anche mio padre.
Volti tesi sugli spalti, fischi, pioggia, caldo. Il Presidente batte le mani, stringe i pugni e la pipa. Si deve andare avanti; si pareggia, si passa in vantaggio, guardo la bandiera, mio figlio guarda me, io guardo mio padre, tutti indirizziamo lo sguardo allo schermo televisivo.
Tre volti tesi illuminati dal riflesso di catodici e pixel.
Fuori dalle finestre il mondo che tifa è diventato una protuberanza del tifo sugli spalti. Il sole è lontano ormai, si prepara al domani. I minuti passano, le reti si segnano, si sprecano, si impreca e si incita in egual misura.
La bandiera è meno tesa rispetto al fischio d'inizio, la tiro, la stringo, la stropiccio seguendo l'altalena delle emozioni in campo.
Finisce, finisce? Me lo chiede mio figlio, lo chiedo a mio padre.
È finita a Madrid, al Santiago Bernabeu contro i bianchi della Germania Ovest.
È finita a Londra, a Wembley contro i bianchi d'Inghilterra padroni di casa.
È finita, abbiamo vinto, sorridono tutti, anche i Presidenti, i calciatori sfiniti e contenti.
Mio figlio urla, urla frasi intraducibili contro i tifosi inglesi impietriti in tribuna. Urliamo tutti salendo su motorini e biciclette.
Le bandiere, anche la mia, garriscono al caldo afoso della notte dell'11 luglio.
11 luglio non importa se del 1982 o del 2021, noi italiani ci siamo.
Mi sono seduto sul divano a otto anni per la finale del Mondiale di calcio e mi sono rialzato dal divano a quasi quarantotto dopo la finale vinta dei Campionati d'Europa di calcio. Vinti entrambi, abbracci, lontani e vicini.
Andiamo a far festa e chiudiamo la nottata.




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