Mi chiamo Angela, ho tre anni, sono in viaggio con la mia mamma e due nostre amiche.
La mia mamma si chiama Maria, ha ventitré anni, lo so perché me lo ha detto il nonno qualche giorno fa.
Le nostre amiche si chiamano Silvana e Verdiana.
So che è agosto, "finalmente" dicono tra loro la mamma e le amiche.
Sono cominciate le ferie mi dicono sorridenti, poi mi spiegano che le ferie sono delle vacanze per gli adulti.
Andremo tutte insieme in montagna, la mia mamma mi ha spiegato che la montagna è fresca, ci sono le mucche e dall'alto dei monti se guardiamo giù possiamo vedere un lago.
Per arrivare alla montagna saliamo sul treno ad Empoli alle otto, un paese vicino il mio, Gricciano di Montespertoli. È una scatola di metallo di un colore strano, un colore che sembra un insieme di tanti colori come quando il nonno mi dà i fogli bianchi e mi lascia disegnare. Il nonno mi bacia la guancia e mi spiega che il treno, ecco come si chiama questa scatola colorata male, mi porterà in montagna.
Seduta vicino il finestrino guardo il panorama e gioco con la mamma, con le sue mani fino a quando il buio avvolge tutto e tutti, anche le altre persone sul treno. Dura pochi secondi poi il treno fa accendere tutte le carrozze.
La mamma mi sorride, vede i miei occhi grandi e neri cercare qualcosa fuori nel finestrino, qualcosa che non sia buio.
Mi spiega che siamo dentro la pancia di una montagna lunga, che la attraversiamo per arrivare presto a destinazione. Ora non mi fa più paura il finestrino nero. Mi addormento vicino alla mia mamma.
Mi sveglio che siamo scese.
Verdiana mi dice che dobbiamo aspettare un po' prima di risalire su un altro treno ma che manca poco e poi arriveremo in Trentino, mi spiega che così si chiama il posto dove stiamo andando.
Sento caldo, come quando sono stata al mare, ma questo è un caldo che appiccica, anche l'aria ha un cattivo odore. Con la mamma e le nostre amiche cerchiamo riparo in una stanza grande, piena di panche in legno e persone quasi tutte uguali che la occupano.
Mamma mi fa bere e mi dà un biscotto; mi dice che sono le 10 e 20, lo dice guardando l'orologio grigio appeso alla parete fuori dalla stanza in cui siamo.
Mia madre spiega che si chiama sala d'attesa e ci si ferma quando si deve salire su un altro treno e ti tocca aspettare.
Io sono appoggiata al braccio di Verdiana, lei mi coccola mentre mamma cammina e Silvana è vicina a noi.
Ci sono tante borse, grandi, di colore nero o marrone come in un'anta dell'armadio della nonna. Sono appoggiate sul tavolo al centro della stanza, a terra strette fra le gambe di chi è seduto in attesa come noi. Un po' di sole entra dalla vetrata, la mamma dice che manca poco, un signore piega un giornale, una signora esce dalla stanza, sento una voce metallica annunciare che un treno sta partendo. Io ho caldo, è agosto.
La mamma ha i capelli neri come i miei.
Manca poco mi dice.
Sono le 10 e 24.
Un passo, un signore che si alza, il cuore mi batte dentro, un rumore enorme che non ho mai sentito, non riesco a respirare, il buio ci ha sorpresi come dentro la pancia della montagna con l'altro treno. Non vedo la mamma. Non sento Verdiana. Né Silvana. Non sento nulla. Polvere, freddo, buio.
È il 2 agosto 1980, non vedo più la mia mamma.
Se finalmente cade il segreto di Stato sulla strage alla stazione di Bologna, per tutte le vittime potrà esserci Giustizia e i colpevoli, quelli già condannati e quelli che l'hanno fatta franca finora, renderanno giustamente conto.
85 persone sono morte, vittime inconsapevoli ed innocenti di oscure trame. La più piccola era Angela Fresu, tre anni appena, morta con la sua mamma, quarantun anni dopo non ancora riconosciuta ufficialmente fra le vittime. Giustizia deve essere fatta, luce e chiarezza per i sopravvissuti e le famiglie delle vittime.
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