Una giornata di lavoro quasi normale

Le settimane al lavoro non sono mai tutte uguali, ognuna ha dei ritmi precisi, a volte pigri, altri un po' più frenetici seguendo una loro stagionalità. C'è il ritorno a scuola, Halloween e il Natale, quasi a ruota, una festa dopo l'altra.
E più o meno i ritmi rimangono gli stessi quasi anno dopo anno. 
Ci sono giorni che cerchi per forza di cose qualcosa da fare per impegnare il tempo; scarichi la poca merce che arriva, che la ripresa dal lockdown ha avuto mille problematiche diverse, sorridi un po' di più ai clienti, scambi la battuta coi colleghi, ti permetti quasi di fermarti un attimo solo a scrivere una frase uscita all'improvviso che lo scrivere ti piace ma le idee non hanno sempre un calendario preciso.
E guardi anche fuori dalle vetrine, le giornate farsi corte, quasi all'improvviso, senza pensare che ormai è autunno da un mese, che le foglie sono gialle e rosse e stanno occupando i marciapiedi.
Lavori, timbri, scarichi bancali che conosci già, apri le scatole, si ricomincia, o continua.
Anche in giornate di inizio weekend, che la scuola ha ripreso il suo ritmo giusto e volge al termine, che uffici e imprese hanno lasciato il cono d'ombra di un lockdown tremendo.
Il sole, in giornate come questa che terminano col buio, è il riflesso sul tetto in vetrocemento della galleria. Piano piano si spegne e arriva l'imbrunire.
Penso che manca poco a timbrare ed uscire, entrare nella sera autunnale, che non fa freddo ma è fresco e rilassante.
Penso, mentre ho in mano uno scatolone di quaderni da posizionare nel loro spazio in area vendita che questa come le scorse, e probabilmente quelle a venire, è stata un'altra giornata di battaglie orale con i soliti ahimè noti, "quelli che io sono No Green Pass, No Vax, la mascherina non la metto". Ormai è routine, si evita, io evito per primo, lo scontro addirittura evito l'incontro. Ci provo almeno.
Cerco di guardare altro, altrove, oltre, qualcosa di positivo.
Ecco, cerco e trovo quello che cerco. Gruppi di ragazzi, maschi e femmine, forse quindicenni, armati di mascherina e zaini. È sera ormai ma la scuola a volte richiede un impegno maggiore.
Ridono; ridono loro dentro la loro età, rido io con le colleghe che sono poco più grandi del gruppetto che ride.
Saluto una coppia di amici che cercano qualcosa meramente d'impulso. 
Ormai il sole se ne è andato, manca poco anche alla fine del mio turno.
Rido mentre la collega mi chiama in cassa, come altre volte. 
Il negozio è diviso da mobiletti bianchi che descrivono una sorta di percorso obbligato, secondo i nuovi concept di allestimento.
vedo la collega corrermi incontro con il cordless in mano, un pò di persone davanti all'ingresso, cosa che non si dovrebbe fare.
"Chiama il 118, che c'è una ragazza che sta male."
Così all'improvviso che non capisco; passo dalla parte opposta dl divisorio e capisco.
Chiamo, attendo pochissimi istanti, pochi davvero e inizio una conversazione che non scorderò subito.
C'è una ragazza a terra, bava alla bocca, rigida. l'amica che era entrata con lei mi spiega che soffre di attacchi epilettici. Io la giro su un fianco, alzando il ginocchio più esterno per puntellarla a terra che non soffochi. Libero la bocca e parlo. Parlo con l'operatore che mi chiede di descrivere ogni singolo respiro della ragazza; devo usare una parola (nel mio caso è "adesso") ad ogni respiro. Intanto mi rassicura che l'ambulanza è uscita dall'ospedale. Mi chiede di girarla supina e tenerle collo e testa. Ho due mani, a fianco a me si è chinata una studentessa (lo scoprirò dopo) che all'Università ha seguito un corso di primo soccorso (me lo spiega dopo, con più calma, in questo preciso istante parliamo con gli occhi e tanto basta).
L'epilessia è un problema neurologico che colpisce all'improvviso a causa di diversi fattori come caldo, freddo, luci improvvise, stanchezza, di contro agitazione.
E' neurologica la sua origine quindi chi ne viene colpito è rigido, contrae come riflesso al problema tutto la ragnatela di nervature che corrono lungo tutto il nostro corpo.
Fisso il telefono fra collo e spalla, parlando con l'operatore; devo sollevare il collo per impedire che, supina, la ragazza ingoi la propria lingua. Contemporaneamente con l'altra mano premo sulla fronte per sentire se la testa oppone resistenza.
Fuori dall'ingresso del negozio la giornata si è fatta sera, la volta di vetrocemento è scura e il passaggio si è fatto un pò più frenetico, nell'ora del rientro verso casa.
Chiedo all'amica qualche informazione sulla ragazza, notizie personali e non, devo farle.
La ragazza dell'Università mi aiuta con le gambe, con il tronco, rigido.
Chiedo all'operatore dov'è l'ambulanza, mi risponde in tono tranquillo che c'è traffico e sta per arrivare.
Bene. Chiedo un ventaglio alle colleghe per dare aria alla ragazza. La chiamo per nome, non risponde, mugugna, la giro nuovamente sul lato evitando che vomiti e si soffochi. La pizzico su una spalla per vedere se ha reazioni; non ne ha.
E' rigida, ma non vomita e respira in maniera più regolare.
La giriamo nuovamente supina, le mie mani non le mollano la testa e il collo, la accarezzo sulla fronte sudata per sentire se scotta, quanto scotta, se reagisce. La chiamo per nome, forse un errore ma dovevo capire se reagiva, mugugna, apre la bocca a cercare aria, non apre gli occhi, non la mollo.
Ho caldo, abbasso la mascherina che non respiro, mi si appannano gli occhiali.
L'operatore mi dice che l'ambulanza è all'ingresso della galleria. La ragazza dell'Università lascia le gambe, asciuga con lo scottex  bocca e fronte alla ragazzina ancora stesa a terra.
Vedo un'ombra alle mie spalle, l'operatore mi chiede se è arrivato il paramedico.
Si, è lui l'ombra alle mie spalle. lo comunico all'operatore, bravo e gentile. Mi avvisa che ora riattaccherà il telefono, che la ragazzina ora è in buone mani.
Saluto, ringrazio, riattacco, parlo con il paramedico. La assiste, la soccorre e con i barellieri la porta all'ambulanza. La seguo con la sua amica, ho la mascherina abbassata, mi sento caldo. Ci fermiamo all'esterno dell'ambulanza. Lei aspetterà i genitori dell'amica.
Hanno 15 anni entrambe, l'età di mia figlia.
le chiedo se ha sete, se vuole sedersi in magazzino. No, è più forte di quel che sembra. Aspetterà i genitori dell'amica.
Io mi assicuro che la ragazza stia meglio. Dall'ambulanza mi dicono di sì. Rientro verso il negozio. 
Incrocio persone che mi chiedono cosa sia successo, non ho voglia di rispondere. 
Vedo le colleghe che parlano con la ragazza dell'Università che mi ha aiutato. La ringrazio, chiedo se siano studentesse di medicina o infermieristica. La risposta mi spiazza, "no, abbiamo fatto un corso di primo soccorso.".
Salutano, escono, io mi siedo in magazzino, ho ancora la mascherina sul mento. Bevo acqua.
La mia azienda i corsi di primo soccorso, l'antincendio alto rischio ce li paga, ci fa partecipare proprio per evitare di non saper gestire queste situazioni.
Non ho fatto nulla di speciale ma c'ero nel momento specifico, c'era anche un'altra persona che mi ha aiutato.
Il turno è finito poco dopo, poco dopo i venticinque minuti più lunghi della mia vita. L'età e il nome della ragazza mi ha no portato ad una escalation di pensieri piuttosto tormentati ma è passata la nottata per fortuna.
Le colleghe mi hanno raccontato della gente che guardava curiosa, ma non interveniva, che faceva capannello fra la cassa e l'uscita per vedere, carpire l'attimo di difficoltà.
Ho pensato molto a questa cosa nei giorni a seguire. Ho pensato che, nonostante gli attacchi epilettici siano diffusi (soprattutto nel mondo scolastico) ai nostri figli, nelle scuole, nel mo do sportivo non si insegna nulla. Non si insegna a riconoscere la persona in difficoltà, ad intervenire anche solo con una telefonata corretta e dettagliata agli operatori sanitari.
No, si preferisce non educare, non istruire e affidarsi agli altri evidentemente. Rischiando di lasciare i nostri figli in balia del caso.
Tornando a casa ho pensato alla ragazza soccorsa, ai suoi genitori, a mia figlia, ai colleghi.
La sera autunnale ha rinfrescato l'aria e tolgo la mascherina. Voglio sentire l'aria e tornare a casa.
Incrocio un gruppo di persone che mi guarda e urla "Libertà", probabilmente perché non ho la mascherina. Li guardo in silenzio e proseguo.
Ecco, questa è la realtà. Triste, stupida.
È autunno, calpesto le foglie che scricchiolano, come quando ero bambino. Ora sono un papà ma le calpesto lo stesso.







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