Strappo lo scontrino, saluto e ricomincio. Con l'arrivo di marzo, la primavera alle porte e la fine del lungo stato d'emergenza causato dalla pandemia anche il lavoro sta finalmente ricominciando dopo una lunga apnea. Il sole illumina una giornata che capisco subito sarà impegnativa, lo vedo dai tavoli all'aperto dei locali vicini, già pieni nonostante sia mattino presto. Dopo questo biennio in bianco e nero osservo con piacere quasi personale il via vai di clientela in negozio. Sono ritornati i turisti d'oltreconfine, dall'Austria in particolare dopo i blocchi alle frontiere, i pass, i supergreen pass, il buio ora finalmente per tutti si accende la luce. Saluto un bambino che mi paga la macchinina in legno, sorride, ha ragione penso, il suo mondo sta riprendendo tutti i colori. Passano veloci studenti, nonni, nipotini, turisti amanti dell'arte che Udine ha saputo valutare e rivalutare, tutto esattamente come prima, quel "prima di..." che mi provoca sempre una smorfia di dolore. Prima che il nostro mondo, piccolo o grande che fosse, implodesse. Dopo lo scontrino sorrido a mia volta a vecchi e bambini, senza distinzione di età, è anche così che sento, anche fisicamente, che la normalità è vicina. E sorride anche il piccolo austriaco mentre se ne va. Il sole illumina la volta in vetrocemento, anche la luce aiuta a sorridere in giornate come queste. Già, che giornate sono? Quelle dolci e amare, allo stesso tempo. Passa una signora che mi saluta gentile, quasi ossequiosa, posa sul ripiano della cassa un cestino pieno di giocattoli e saponi. La guardo, non ha più di sessant'anni, è piccola, i capelli biondo chiaro e la pelle quasi bianco latte. Parla con un forte accento dell'Est, capita in giornate come questa, nel weekend. Un piccolo esercito di donne dell'Est che si ritrova, parla, condivide, la vita lontano dalla casa madre. Sono anche ucraine, certo, alcune le conosco da quasi dieci anni. La signora compra i giochi, mi spiega che li porta alla comunità Ucraina che stanno arrivando i bambini. Prende il sacchetto, saluta ed esce. Ecco, è un'altra giornata adesso; penso agli sloveni ed agli austriaci che in una manciata di ore d'auto possono godersi nuovamente Venezia o Milano e ad una manciata di ore d'auto dalle loro case la notte ci riporta al 1986, a Chernobyl, al nucleare che non è pulito, non potrà mai essere innocuo, alla guerra esplosa drammatica in una settimana. Penso agli occhi azzurri del piccolo bambino austriaco che sorridono mentre mi saluta mentre alla TV vedo, e sento, bambini con gli stessi occhi altrimenti sorridenti, piangere, incolpevoli vittime di strategie belliche. Ecco, a me gli ultimi eventi scatenati dal conflitto russo-ucraina fanno rivivere i timori della notte di Chernobyl, della paura della pioggia che arrivava da Est, del restare, nella primavera del 1986, lontani dagli orti, dalle verdure a foglia larga, dal latte appena munto. Allora ero quasi un adolescente me tutto il dolore del momento lo leggevo negli occhi azzurri di mio padre. E solo un paio di notti fa tutto è parso nuovamente attuale ma non per un errore umano, un errore tecnico o chissà cos'altro comunque "giustificabile" in qualche modo. No, stavolta la paura ha la forma di un proiettile, un missile, un incendio, un palazzo che crolla, i pompieri che arrivano, vicini, vicinissimi ai reattori nucleari di Zaporizzja, sempre Ucraina, sempre lì, obiettivobstabolta di conquista militare e politica. E supereroi sono stati i pompieri ucraini, come i loro predecessori più sfortunati, accorsi subito e preparati al peggio. La centrale nucleare di Zaporizzja è oggi la più grande d'Europa, quel continente che fatica sempre più a ritrovare la propria identità ed oggi è anche in mano ai russi. Ecco, all'improvviso è il 1986, la paura che striscia nuovamente proprio adesso che la pandemia la stavamo chiudendo finalmente. Penso alla famiglia austriaca appena uscita dal negozio, alle distanze in chilometri che non è poi così tanta, che non stiamo parlando di una guerra "oltre... Oceano, continente, fate voi...", ma sulla soglia di casa, in quel limbo geopolitico che è Europa, occidentale e orientale al tempo stesso. E coi pullman che arrivano anche ad Udine, sono iniziate le azioni di volontariato fra noi che siamo comuni cittadini; raccolta di tutto ciò che può essere utile a dare conforto, aiuto, e anche noi del negozio che siamo un piccolo staff abbiamo portato lenzuola, vestiti, asciugamani, quaderni, carta, saponi. È bastato un rapido giro di chat su whatsapp. Fanno lo stesso le signore dell'Est che il weekend non lavorano, che con gentilezza e dignità si godono la città nel loro tempo libero. Adesso acquistano con un velo di tristezza nel sorriso batterie, cavi telefonici, giochi per nipoti, figli, parenti che sono rimasti là. Oggi il negozio è un miscuglio di emozioni, lo percepisco guardando gli occhi delle persone. Io in magazzino osservo il pallet con le scatole che abbiamo preparato, chiudo un attimo gli occhi e sono in periodo della mia infanzia fra il 1981 e il 1983, a casa con mia madre e le amiche a preparare altri sacchi, altre scatole da mandare nella Polonia di Jaruzeskj, stretta dallo stesso generale nella morsa della Legge Marziale. Altri tempi, stesse dittature e violenze. Il negozio è vivo finalmente e osservandolo oggi sembra quasi che nel mondo non sia, e non stia, successo nulla. Solo le mascherine tradiscono il momento. Ragiono inconsciamente sulle distanze, su quanto distino la Crimea, Kiev, Kharkhiv (zone che i più a volte conoscono solo grazie allo sport) e su quanto in termini di tempo siano più vicine da casa mia che Palermo o Agrigento. Curioso e triste, preoccupante perché mentre saluto una signora che spesso il sabato mi porta i saluti di un vecchio collega mi viene in mente il decennio degli anni '90. Lontano una vita fa: l'ho iniziato con un sit-in di protesta a scuola contro la prima Guerra del Golfo, con un palchetto montato in fretta e furia nella palestra della scuola, lo stereo che passava la diretta del voto in Parlamento che avrebbe deciso poi di inviare truppe italiane nel Golfo Persico e quattro amici a suonare la chitarra sulle note di "Give Peace a Chance" di John Lennon, inno pacifista passato da tutte le radio europee alle 8:45 di questo venerdì appena trascorso pieno della paura di una nuova catastrofe nucleare. E se dopo il 1991 nel Golfo Persico ci siamo illusi di aver riportato la pace ecco che dietro casa di noi Italiani è esplosa la Crisi Jugoslava, qualcosa più di un pugno allo stomaco. Esattamente nel 1991 i primi colpi di mortaio di una crisi protrattasi fino al 2001 con la dissoluzione dell'ex Jugoslavia che fu del generale Tito. Fu un colpo secco a chi come me era in quell'età di mezzo fra adolescenza ed età adulta; tutto il piccolo mondo fatto di certezze (quelle che si possono avere a quell'età, lo sport, la solidità e l'estro degli sportivi jugoslavi erano quasi "brasiliane") crollava, mi son trovato a dividere posti letto con altri colleghi non più connazionali, lontani fra di loro, inconsapevoli protagonisti di un decennio drammatico. Quello nella ex Jugoslavia, l'assedio di Srebrenica, Sarajevo, le stragi al mercato, i campi di concentramento nel cuore dell'Europa ci hanno accompagnato tristemente all'età adulta. Poi almeno nel Vecchio Continente una parvenza di pace, mai del tutto sopita in realtà fino all'ultimo biennio, troppo duro da capire, comprendere, vivere. Nemici invisibili e visibili. La lenta ripresa dei ritmi di sempre quando tutto sembrava impossibile da raggiungere, la musica che ogni tanto passo ad un volume un po' più alto perché mi rilassa e diverte, l'incontro con persone diverse, amici, il lavoro. Sembrava tutto normale, come la risata di un bambino che risponde al mio saluto e invece qualcosa ritorna sempre dagli anfratti del tempo, della memoria, della geopolitica e ti esplode addosso. Guardo cani passeggiare, grandi, piccoli, maschi e femmine; ringhiano, si annusano, continuano il loro cammino. Strappo un altro scontrino e penso che noi, umani, siamo l'unico animale che non impara dai propri errori.
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