La strada bianca è ripulita, priva di erbacce, arrivando dal centro del paese la trovi a sinistra prima dell'imbocco del ponte. È una curva a gomito, non segnalata; è sempre stata così in realtà ma nessuno prima ci faceva molto caso, semplicemente ci si è adattati alla sua inerzia, alla viabilità del momento.
La strada bianca c'era anche prima, anche gli anni scorsi, solo se ne stava nascosta fra canneti, rami di sambuco e alberi di emoli. Ora è lunga una decina di metri e si ferma davanti a due colonne di mattoni alla cui sommità ognuna ha un cuore di gesso. C'è un cancello in ferro battuto sostenuto dalle due colonne che si apre discreto accostandosi alle fotocellule. Se si guarda a destra mentre si aspetta che il cancello si apra lento scorre altrettanto lento il Canale dei Cuori che prende vita propria staccandosi, prima del ponte qui vicino, dal corso principale dal canale Naviglio e proseguendo la sua corsa verso il vicino comune di Cavarzere. Non ci sono guard-rail solo altra strada, altri canneti, altri sambuchi a segnalare dove inizia l'acqua.
La bicicletta gialla è una macchia colorata che taglia la campagna, alza dietro sé una colonna di polvere bianca. In fondo alla strada abita la famiglia del mio amico Stefano, nel cuore dell'azienda agricola. È una strada bianca lunga una manciata di chilometri costeggiata da arbusti più vecchi della strada stessa, immobili a regalare un po' d'ombra. Non ci sono solo alberi secolari, dalle frasche ampie, ce ne sono tanti di più piccoli nell'altezza ma dal tronco eretto, sinuoso, con la chioma piena di foglie lunghe non più di sei centimetri. Si alternano come in un tacito accordo con gli alberi più grandi al limitare del campo di girasoli. Li riconosco dai fiori bianchi e rosa, piccoli, pronti a bucare la nebbia già a marzo e aprile. Sono amoli o emoli, più scientificamente si chiamano mirabolani. Appena mi addentro sulla strada bianca passo di lato ad una costruzione a due piani in mattoni a vista, lui si che i girasoli li ha visti nascere, crescere da sempre, in apparente stato di abbandono. Il papà del mio amico è il fattore dell'azienda dentro i cui confini mi sto muovendo e ogni volta che con gli amici passiamo su questo lato dell'argine si raccomanda di non passare troppo vicini all'edificio pericolante. In questi casi si dice sì ma si fa esattamente il contrario.
Fermo la bici gialla davanti al portone d'ingresso; è quello che rimane di un portoncino in legno verde. Guardo le finestre al piano più alto e ne ricevo in cambio uno sguardo storto, come una persona che mi guarda con un occhio solo. Gli infissi ci sono e non ci sono, la maggior parte sono caduti e rimossi dal papà del mio amico e dai suoi colleghi. Anche il tetto è presente solo in parte. La cosa più buffa, almeno per la mia idea di bambino è che nella pancia della casa negli anni è nato e cresciuto un grosso albero che oltrepassa quel che resta del tetto, regalando alla casa con lo sguardo storto una folta chioma di capelli.
Cammino sul pavimento di cotto rosso, sento solo il rumore dei miei passi e lontano dietro la finestra un merlo che si getta a capofitto fra i girasoli. Dal divano osservo il Canal dei Cuori scorrere lento, come se non fosse domenica, come se i campi attorno a lui non fossero già svegli. Il merlo canto dal suo ramo, ha scelto un albero piccolo, con una chioma folta, con dei frutti piccoli appesi. Dall'altra parte del canale dalla stalla una mucca gli risponde forse indispettita dal canto così mattiniero.
Scrivo, sistemo appunti e ne prendo di nuovi. Dalla finestra vedo la strada bianca costeggiare gli ettari coltivati a girasole, gli alberi sinuosi già pieni dei loro frutti, rotondi.
Lascio alle spalle l'edificio con lo sguardo storto e con qualche altra pedalata arrivo a casa del mio amico; l'aia davanti casa è ingombra di mezzi agricoli e dalle stalle vicine arrivano muggiti di mucche e vitelli, c'è ombra, ci sono anche gli altri amici, li raggiungo. Dietro la casa vedo la sagoma del piccolo biposto fermo in fondo alla pista di atterraggio, rigorosamente privata. I padroni della tenuti sono in paese, ecco il perché di tanto fermento in fattoria.
Ci salutiamo veloci, risaliamo sulle bici, l'ultimo saluto come sempre è della mamma del mio amico, partiamo.
Abbiamo altri alberi da vedere, rami di sambuco da spezzare e usare come presunte armi. Altri ponti da superare e frutti da raccogliere, rami su cui arrampicarsi e sbucciarsi le ginocchia. La tenuta è grande davvero, lo è tutt'ora, e abbiamo un'estate per vederla tutta.
Passa una trebbiatrice diretta verso la rimessa; ci spostiamo tutti di lato, quasi schiacciati contro gli alberi di amoli, o mirabolani, per lasciare strada all'immensa macchina agricola. Il passaggio del mezzo fa cadere una gran quantità di foglie verdi e frutti rossi, che ricadono su un suolo già pieno di frutti caduti. Riprendiamo il cammino verso un altro punto della tenuta, dall'altra parte dell'argine dove ci dice Stefano, ci sono tanti alberi di amoli ancora pieni.
Scrivo; è un albero ornamentale all'inizio, che delimita giardini, confini, proprietà. Il frutto quando matura ha il diametro quasi preciso di un Giotto, pochi centimetri rossi, gialli, amaranto con riflessi viola. Ce n'è uno sotto la mia finestra, di fronte il vialetto che porta all'ingresso della casa a due piani. Lo guardo, vedo i frutti a terra, osservo poco più in là il cancello. Cadono, nessuno entra nella strada bianca in bicicletta, c'è un cartello discretamente severo che indica che il terreno è proprietà privata e un altro più discreto issato sull'argine che sconsiglia la pesca in quelle acqua pigre.
Il giro in bici sembra infinito, una corsa a tappe dove le tappe sono cespugli di sambuco e alberi di amoli. Abbiamo tutti con noi una borsina della spesa ben piegata a triangolo dalle pazienti mani materne. Gli emoli crescono ovunque un po' dimenticati, un po' tenuti segreti, e regalano il loro frutto a chiunque abbia voglia di arrampicarsi sui suoi tronchi sinuosi e raccoglierli. O abbia una scala pronta all'uso come il mio papà. Qui in aperta campagna questi alberi devono aver trovato un ambiente simile all'Europa centrale o all'Asia. Mi arrampico attento a non scivolare, un graffio o due lo porterò a casa assieme alla borsa di amoli, è quasi scontato. Il raccolto è abbondante, come sempre; i frutti ci sono davvero per tutti basta andarli a prendere. La piccola comitiva rientra verso la fattoria e da lì poi verso casa, ripercorrendo al contrario la strada bianca, salutando la casa con lo sguardo storto e dopo un po' di metri coi cespugli ad altezza bici entriamo in senso opposto nella curva a gomito e si rientra in paese.
Il lavandetto che delimita il vialetto d'ingresso è una ridda di bimbi, api, farfalle attratte dai fiori della lavanda. Lo attraverso i visibile per gli insetti troppo intenti nel loro lavoro. Vado verso il piccolo albero, afferro il ramo sopra la mia testa, lo abbasso verso di me senza forzarlo e colgo con la mano aperta un po' dei suoi frutti; sono di un colore giallo non ancora dorato ma anche aspri mi piacciono. Mi siedo sulla panchina che regala la vista sulla distesa di girasoli alla ricerca anche loro di un po' d'ombra in questa estate rovente. Anche la panchina è una novità, prima questa era la casa di un cespuglio di sambuchi, credo lo fossero, sicuramente di un rovo incolto. Mangio il primo amoli, poi il secondo, il gusto è aspro, è un po' presto a giugno.
Mangio, chiudo gli occhi.
Mia mamma afferra la borsa piena di amoli rosso scuro, sembrano tante susine. Li versa tutti nella bacinella già pronta nel lavello. Li lava per bene, anche se per strada ne ho già mangiati parecchi non lavati. So già quale sarà il loro destino; una parte li mangeremo così come viene, quando me abbiamo voglia e una parte più piccola andranno a fare compagnia all'anguilla, già pronta, tagliata ed eviscerata anche lei.
Salgo i gradini per raggiungere l'appartamento al secondo piano, il vano delle scale è insolitamente fresco. Quando chiudo la porta d'ingresso lo spazio è tutto per me. Guardo le pareti di mattoni, gli stessi con cui questa casa è stata costruita, recuperati uno dopo l'altro, e le travi in legno a vista, recuperate in parte e in parte ricostruite uguali al vecchio progetto. Nel silenzio del pomeriggio sento il ronzio del drone che getta, mirati, i parassiti che cacceranno dalle colture altri parassiti. Mi sembra tutto molto strano ma mi rendo conto che i tempi sono cambiati per tutti.
Preparo la borsa che l'indomani devo rientrare.
La borsa di antica viene ripiegata a triangolo e sistemata da mamma in dispensa.
In cucina sulla padella col manico più lungo la mamma sta facendo rosolare da entrambi i lati i pezzi di anguilla. Sta preparando la cena, così quando papà rientra dal cantiere ha tempo per lavarsi con calma e mangiare con noi. Sento l'odore del pesce che rosola, vedo mamma spremere dentro un cucchiaino da caffè, due volte, un po' di concentrato di pomodoro e lasciarlo libero nella stessa padella dell'anguilla, ammorbidendolo con un po' di acqua. Il contenuto della pentola sfrigola, bolle e si calma, borbottando appena. Mentre il guazzetto continua la sua cottura mamma taglia delle fette di polenta bianca che abbrustolirà appena papà uscirà dalla doccia. Io la seguo sempre quando cucina, adesso la seguo mangiando una manciata di amoli. Ne prende dalla bacinella una anche lei, la sciacqua sotto l'acqua corrente e si gira verso la pentola, solleva il coperchio e lascia ricadere i frutti all'interno fra pezzi di anguilla e sugo di pomodoro. Mescola veloce e richiude, abbassa più che può la fiamma, da adesso sarà una cottura veloce e dolce.
Pochi minuti e spegne. La cena è pronta, aspettiamo papà.
Scendo le scale e chiudo la porta, lascio la chiave di e mi hanno indicato, attraverso il lavandetto, il pezzo di strada bianca fino al cancello. Aspetto che si apra, lo supero, mi fermo, aspetto che si richieda. A cancello chiuso guardo la casa a due piani. Non ha più lo sguardo storto e i capelli sul tetto, no. Gli hanno ridato una seconda chance, meglio che potevano. A lei e a tutta l'azienda agricola. Il papà di Stefano è in pensione, il mio amico è lontano, padre a sua volta. Ora ci sono i droni e i trattori computerizzati, le stalle con le mi che sull'altro lato del canale. Mi incamminò verso il paese, mi giro, sorrido. Mentre mi pare di vedere una bici gialla in lontananza muoversi dentro una nuvola di polvere bianca lo vedo, sinuoso, piccolo. L'albero di amoli è rimasto al suo posto a guardare il suo piccolo mondo cambiare. Dalla tasca prendo un frutto, lo mangio, è aspro.
Con l'anguilla è la morte sua.
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