Il portoncino è con il telaio in alluminio grigio e vetro, un tocco di quasi modernità in una palazzina Ater dimenticata dallo stesso ente, e pazienza se chi ci vive ha ormai una certa età. Un disinteresse forse reciproco; pazienza se l'intonaco sulla facciata cade, si stacca, lascia vedere le rughe della palazzina.
Pazienza se le scale non sono a norma, ci si appoggia allo scorrimano per salire e scendere, anche se il corpo ha pagato dazio all'età e una rampa in più di scale diventa uno sforzo enorme.
Si dice pazienza o chiamerò. Domani, un domani che non ha la spunta sul calendario. I pianerottoli sono tutti arredati, un tocco di personalità degli inquilini per salutare chi arriva, per nascondere con un quadro che in casa non ci sta più una macchia nuova di muffa. E poi le finestre sulla facciata, fra un piano e l'altro, coi telai in legno verniciato male che segnano il tempo che passa come metronomi con il fiato corto.
Forse l'ente proprietario dell'immobile non lo sa che in questa palazzina nata prima del boom economico ci sono persone che vivono la propria abitazione con fatica, una fatica che va oltre il peso di una esistenza quotidiana faticosa, che non chiamano al telefono il capoluogo (Rovigo in questo caso) per "non disturbare, che chissà quanto lavoro avranno", che la macchia sul muro magari si asciuga, che lo scarico "è sempre stato lento perché siamo bassi...".
No, in senno all'Ater tutto questo non lo possono sapere altrimenti non me lo spiego perché l'edificio dove sono cresciuto nella seconda parte della mia infanzia è lontano anni luce da avere una parvenza di modernità, sicurezza, in primis comfort per chi ci abita e si può godere i giorni della pensione guardando oltre.
Salgo i primi dieci gradini, la rampa più corta del palazzo, e anche se fuori è mattino la penombra mi avvolge. L'appartamento di papà è sul lato destro, quello appunto con il portoncino in alluminio e vetro. Sul muro del pianerottolo un ritratto della Gioconda mi guarda enigmatico quasi quanto io guardo lui. Mi ha accompagnato dal primo giorno della mia vita, adesso nel piccolo appartamento di papà non ci sta più e arreda le pareti del pianerottolo.
Mi appoggio un attimo allo scorrimano mentre aspetto che il portoncino si apra; è di legno, poroso, verniciato più volte, consumato, con qualche scheggia che si stacca.
"Hanno già tanti problemi..."
Papà da muratore ha costruito per l'Ater tante palazzine tutte uguali sparse per la provincia, enormi scatoloni bianchi dagli infissi verdi o rossi simil Lego, palazzine più piccole in mattoni a vista, sa guardare e capire una casa come fosse una persona ma purtroppo per me e mio fratello sa anche quali sono i tempi di attesa, di sviluppo di una pratica di richiesta assistenza. Soprattutto sa mettere mano alla palazzina stessa nel limite delle sue possibilità, con le mani sicure ma adesso che lo saluto, che lo abbraccio mi accorgo che non ha più la forza di prima.
Entriamo a casa.
Il papà si siede in poltrona, una di quelle brutte e scomode che pubblicizzano in TV promettendo miracoli, che si alza con un movimento meccanizzato assieme a chi la occupa, per permettere alla stessa persona di non affaticarsi nell'alzata, una poltrona che con l'arredo non c'entra ma era l'ultima poltrona scelta per necessità da mamma e finirà i suoi giorni in questo appartamento.
Lo guardo e per la prima volta non vedo il muratore con le spalle larghe e il torace ampio ma piuttosto un uccellino fragile, di quelli che il freddo dell'autunno coglie impreparato.
Mi spiega l'origine della chiazza sul muro, della muffa in bagno, con un filo di voce mi spiega come l'Ater ha fatto, male, i lavori e che tanto "non vale la pena chiamare perché dove ci sono anziani non vanno subito".
So che ha ragione, so che ci sta male dentro.
Gli spiego che tante volte non serve usare il telefono, che adesso c'è la posta elettronica, c'è la PEC che così si ha la certezza che la comunicazione arriva al destinatario e si ha anche la certezza di quando viene letta.
"Ma no, chi vuoi che ascolti un vecchio come me...lascia stare."
Lo guardo perplesso, in silenzio. Dietro di lui ci siamo io e mio fratello, mia nipote, tutti piccoli alla stessa età, tutti che sorridiamo nella stanza. In un mobile marrone scuro con la vetrina foto di chi non c'è più e più sotto una macchia di colore: foto dei miei figli, dei nipoti che sono tanti, che sorridono dall'angolo buio dell'ingresso e forse è proprio quella ridda di saluti che papà vede prima di uscire e subito al rientro la cosa più bella dell'appartamento.
Ma non ci abita solo il mio papà qui.
Al primo piano ci abito un signore che trascina i postumi di un ictus di quasi trent'anni fa sui gradini con la dignità di chi sa che può contare solo su se stesso.
Un ictus in una palazzina Ater senza ascensore, al primo piano?
Ecco, certe cose non me le so spiegare anche papà se ne accorge quando per salutare il vicino chiedo come sta e mentre ascolto la risposta serrò nervoso la mascella.
Il vicino mi risponde che sta bene, come fanno tutti, come la signora della porta accanto nel vero senso della parola. Sta bene, anche se il cuore fa le bizze un giorno si e l'altro pure.
La risposta positiva dimostra la dignità di queste persone, la dignità che mettono nel loro quotidiano nonostante tutto attorno a loro dimostri il contrario.
Loro tre abitano vicino da sempre e da sempre hanno messo dignità e rispetto in ogni cosa fatta e detta.
Sul treno al rientro ripenso alla palazzina scrostata, la strada piena di buche, con gli scarichi che spuntano tra i piedi.
Cerco il sito dell'Ater sullo smartphone, la provincia di Rovigo, copia sulla barra del destinatario della mia PEC l'indirizzo che mi serve e inizio a scrivere.
Inoltro quasi senza rileggere.
Avviso mio fratello dell'avvenuto invio.
Penso alla poltrona davvero brutta e mio padre che vi si perde dentro, un uccellino vola di fianco al finestrino per un lungo attimo prima di girare in un altro angolo di cielo.
Il treno attraversa la campagna.
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