L'Ungheria è grande, copre una superficie di 93.000 km quadrati nel cuore storico della Mitteleuropa, una superficie calpestata ogni anno da migliaia di turisti attratte dal "bel Danubio blu".
Ecco, adesso provo ad immaginare la stessa superficie in un altro contesto geografico, quella terra e quelle montagne che delineano i confini meridionali della Turchia e settentrionali della Siria.
I 93000 km quadrati coprono una vasta area di montagne, di patrimoni UNESCO come Aleppo in Siria e Gazantiep e il suo castello in Turchia. Luoghi storici troppo spesso legati a doppio filo a pagina drammatiche della storia moderna.
In queste righe però non c'è lo spazio per parlare di terrorismo, zone di guerra, califfati, no.
C'è una riflessione dolorosa su quanto sta accadendo nelle zone sopra citate, di quanto precario si l'equilibrio che ci tiene in vita, che separa la felicità del dramma, la vita dalla morte.
Il 6 febbraio 2023 la terra ha tremato, ha tremato così forte da scuotere tutta la provincia turca di Kahramanmaras e le zone confinanti della Siria. La terra ha tremato così forte che ha allontanato vite, lavori e confini se è vero che l'Armenia ora dista tre metri più distante di prima.
Dopo una settimana di cronaca fredda nei telegiornali lo sguardo cade li, su occhi grandi, mani piccole, forza enorme, voglia di vivere che morde.
Il lavoro incessante dei soccorritori, di qualunque nazione essi siano, ha salvato vite, recuperato corpi, messo in sicurezza edifici, strade, vite.
Andando oltre le raccomandazioni di regime, siriano, di non aiutare le popolazioni colpite "perché li cova il terrorismo" (vere o meno, le affermazioni di regime contrastano violentemente con le immagini provenienti dalle stesse zone nel corso degli ultimi anni) il mondo civile si è mobilitato per cercare di superare una catastrofe quasi senza precedenti. La conta delle vittime sale ogni giorno, ora dopo ora. E il numero dei morti ha raggiunto una cifra enorme, drammatica soprattutto nel particolare che molti vengono sepolti in grandi fosse comuni senza nome, solo con un numero identificativo, perché non c'è nessuno capace di identificarlo, nessuno più in vita.
E fra i cumuli di macerie e la polvere che inspessisce l'aria e brucia gola e polmoni piccoli ruggiti di sole tagliano l'aria.
Sono l'immagine più forte di questa tragedia, tragedia a sua volta nella tragedia. Sono gli sguardi grandi, spalancati sul mondo ancora sconosciuto, di bambini, di giorni, di mesi, di pochi anni, addirittura aggrappati al cordone ombelicale della madre per urlare di esserci.
Sono pugni allo stomaco senza identità che non importa se sono turchi o siriani, conta che sono bambini, vite nuove, speranze nel futuro. Segnali forse che qualcosa deve cambiare se è vero che il siriano Assad ha permesso l'apertura di un corridoio umanitario verso i territori devastati dal sisma.
Sono occhi che si incollano agli occhi dei soccorritori, alle mani, al cuore.
E la domanda che viene in mente a chi guarda è una e solo una: "E adesso?".
Adesso cosa sarà di loro, della loro vita tutta da costruire?
Chi canterà loro una canzone prima di dormire?
Chi regalerà loro il primo sorriso?
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