365 giorni. 365 notti.
Un anno in cui la sirena è diventata il suono che accompagna l'alba e il tramonto.
Un anno lungo come un assedio, come una notte che ti invade.
Un anno e più; le cronache hanno raccontato dolori e deliri di questa guerra chiamata un po' più ad est "operazione speciale". Li ha portati fin dentro le nostre case quasi che fosse più tangibile il grado di orrore che gli ucraini sotto assedio possono provare.
Chi ha la mia età per quanto nato abbondantemente dopo la Seconda Guerra Mondiale assedi come quello dell'acciaieria Azovstal, stragi di Bucha, battaglie tra il fango e le foreste di Bakhmut, Odessa, la Crimea, il Donbass (situazione politicamente e strategicamente critica molto prima dell'inizio di questa guerra) riportano alla memoria i giorni neri del conflitto nella ex Jugoslavia, i campi di concentramento a due passi da Trieste, il nostro confine; la strage del mercato di Sarajevo, la vergognosa tragedia di Srebrenica (nella quale è bene ricordarlo, i caschi blu si girarono dall'altra parte). C'è sempre un popolo che piange, l'orrore negli occhi di chi trova rifugio nel buio di una cantina, nel freddo di uno spazio violato che un tempo era la propria casa.
In questi 365 giorni e più di guerra si è parlato molto, al limite della faida politica, sugli aiuti da inviare alla popolazione occupata, si è discusso il grado di aiuti, se fosse giusto o meno (al netto del discorso armi e aiuti militari che rientra in un'ottica ormai globale, con equilibri e strategie che affondano le radici nella vecchia e mai sopira Guerra Fredda); sono partiti carichi di medicine, alimenti, biancheria per la casa, abbigliamento, giocattoli, quaderni, quanto di più utile a tutti a fare sentire il nuovo quotidiano simile a quello vecchio. Simile alla vita di prima.
Abbiamo ascoltato voci, visto lacrime riempire occhi di giovani, vecchi, bambini, tutti senza distinzione di età, tutti ugualmente privati della loro vita, dei loro ritmi, lavori e passatempi. Purtroppo dopo più di un anno vediamo continuare anche le polemiche su come da tutti i lati, sia stata gestita questa guerra, su chi sia la colpa, i "j'accuse..." da salotto, da social. Tutto pur di gettare discredito su chi è stato attaccato in maniera massiva nel proprio cuore, nel cuore che batte e nel cuore che lavora.
E dopo tutti questi giorni, che sono un'infinità in condizioni simili anche se un anno può sembrare veloce, breve e leggero da passare, le polemiche anche feroci si posano sulle armi, sugli armamenti, sugli aiuti, sui rapporti fra le potenze del mondo, che a conti fatti abbiamo scoperto essere una e una sola: la Cina.
Vicina a Putin, ideatrice di una bozza di piano di pace (l'unico per ora perché gli spostamenti ferroviari dei premier europei verso Kyev non hanno spostato di un centimetro la situazione sul campo), in rotta di collisione su Taiwan con gli Usa, principale partner commerciale (import-export, forza lavoro, costo del lavoro) del nostro Paese, sufficientemente distante e vicina al tempo stesso a Zelensky.
Ecco, dopo più di un anno sappiamo con certezza che davanti a noi cadranno altre bombe, altri missili, altre fake news e altri messaggi di propaganda.
Dopo più di 365 giorni nulla è cambiato, anzi, gli occhi pieni di lacrime sono forse raddoppiati.
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