Carnevale, la festa in parrocchia, al Teatro Sociale nel pomeriggio del Martedì Grasso quando il periodo carnascialesco finiva e si iniziava placidamente a pensare alla Pasqua.
“Non si rimaneva a casa da scuola, sai?”
“Neanche un giorno solo?”
“Nemmeno uno. Anzi, si andava a scuola in costume, portando ognuno dolci e bibite per la festa in classe. Dolci rigorosamente fatti in casa sai?”
Fatti dalle mamme, dalle nonne, dalle zie, in rigoroso ordine di importanza famigliare.
Mio figlio mi guarda con stupore.
“Ma davvero potevate lanciare i coriandoli? In classe e in corridoio?”
Annuisco con la testa, sembra quasi di parlare di un’altra epoca.
“Io però rimango a casa tre giorni, secondo me va meglio a me!”
Alzo le mani, non posso dire nulla in effetti per controbattere, i tempi sono cambiati. Troppo.
Dobbiamo scegliere un costume che possa piacergli per la festa del Martedì Grasso al parco comunale. Gli anni Duemila sono abbondantemente arrivati e il clown, il pirata, Zorro, sono ormai lontani, il costume, le mode, il trend, richiedono un travestimento per lo meno di tendenza.
Tendenza che in questo caso specifico significa Marvel, supereroi; ancora più nello specifico significa Capitan America.
“Sai che io e lo zio Denny avevamo lo scudo del Capitano? Mi pare l’avessimo preso con dei punti di un concorso. Forse erano patatine fritte, non mi ricordo.”
Non ricordo il motivo con il quale quello scudo finì per volare fra i mobili del salotto e i ciottoli della calle; più realisticamente credo fosse di mio fratello e che con il passare del tempo sia di fatto finito fra i miei giochi.
“Davvero? Forte!”
Si, forte. Giocando nella calle mi sentivo un piccolo Avenger.
“Io però ho quello che mi hai fatto tu e mi piace molto.”
Disegnammo lo scudo appena uscito il primo film Marvel dedicato alla saga dei Vendicatori con un lavoro a quattro mani mio e di Denis per unire e tagliare i cartoncini, per colorare con i colori acrilici lo scudo del Capitano.
Mentre cerco nel mare di offerte in rete il costume più utile alla nostra causa Denis gioca, si muove fra le scatole in plastica bianca dove sono custoditi i giocattoli. Lo sento come un sottofondo che cerca di dare vita ad un’altra puntata della saga degli Avengers e mi accontento di aspettare con calma e in silenzio quale dei supereroi questa volte salverà i destini del mondo. La scelta offerta da internet è a dir poco infinita e mi servirà un po' di pazienza. Lo sgabello mi ospiterà per un po' mentre nell’altra stanza intuisco che New York sta per soccombere sotto l’attacco di un improbabile esercito di cattivi.
Il mobile è un parallelepipedo alto poco meno di un metro con un piano di appoggio con la base di circa sessanta centimetri per cinquanta, alto circa dieci centimetri. Il mobile occupa da sempre un angolo della stanza che in realtà è un corridoio che collega tutte le stanze dell’appartamento. È nell’angolo più comodo sotto la grande foto del Papa Buono, Giovanni Paolo XXIII, vicino al tavolo di legno in formica verde, con il cassetto portaposate in tinta e le quattro gambe sottili di metallo con il piedino piatto ad appoggiare sul pavimento.
Sul ripiano del parallelepipedo c’era da sempre un centrino bianco fatto dalla mamma ad uncinetto. Sopra il centrino faceva bella mostra di sé una statuina in dolomia, una di quelle statuine fatte dello stesso minerale (la dolomia appunto) che variavano il loro colore in base al tempo meteorologico, peculiarità del minerale stesso, talmente brutta da essere quasi bella e indimenticabile.
Il mobile in realtà nascondeva qualcosa di fantastico e rumoroso. Una macchina da cucire Singer modello Anger a pedale, anni ’60. Nascosta in quel mobile di legno lucido, color nocciola, le venature del legno vivide, la macchina da cucire Singer aveva su di me un fascino particolare.
“Mamma posso andare con mio cugino Roberto alla festa di Carnevale al Teatro sociale?”
La festa si sarebbe svolta nel pomeriggio, dopo una prima festina a scuola. Per la festa a scuola non tutti gli anni la mamma era disponibile (la dialisi scandiva tempi e modalità della nostra famiglia) e quindi toccava alla zia preparare per me e suo figlio Roberto crostoli, fave, frittelle da portare ai compagni di classe. Era una festa che mi piaceva anche se il costume da Zorro, che era il mio preferito, l’ho sempre evitato causa miopia ed occhiali incompatibili con la mascherina nera.
“Va bene, chiediamo alla zia se prepara i crostoli? Bisogna pensare al costume?”
Ecco, il costume. Il paese è piccolo e non c’era, allora come adesso, un negozio di giocattoli vero e proprio come gli stores dei giorni nostri, internet era ai primi vagiti così come il telefono cellulare; c’era la tabaccheria, due a dire il vero, curiosamente entrambe poste lunga la riva del canale, sotto i portici. Una a sinistra e una a destra la via principale. Scelta limitata quindi ma per i tempi abbondante.
Il costume era importante, lo è anche adesso.
“Denis, lascia un attimo New York e vieni a vedere se questo è il costume del Capitano che ti piace?”
“Proprio adesso? Non posso, Nick Fury (l’agente capo dello Shield e credo a questo punto degli Avengers) è in pericolo, vieni tu qui col tablet!”
A questo punto non posso dire di no, quantomeno per Nick Fury.
In salotto una New York distopica è in macerie; quello che poteva essere un grattacielo è stato abbattuto da un brick di thè alla pesca e sul telecomando giacciono feriti Iron Man e Black Widow. Mi avvicino a Denis cercando di evitare attentati rivendicati Lego ad alluce e mellino.
“Questo ti piace?”
Il bambino nella foto illustrativa afferma di avere l’età di mio figlio ma è palese che mio figlio sia quasi la sua custodia e una volta accertato che il costume è di suo gradimento cerco la taglia adolescente-giovane adulto. Gli anni però sono solo 10. Con un click confermo l’ordine e lo pago sperando di non dover procedere poi al reso. Saluto New York, lancio un in bocca al lupo agli eroi in battaglia.
A Carnevale al paese il meteo era quasi sempre impostato su nebbia e freddo, quella combinazione che condensa l’umidità sui capelli, ti bagna la fronte e ti lascia due triangoli di condensa sulla parte alta delle lenti degli occhiali. La dolomia quasi ogni giorno dell’inverno assumeva un colore grigio topo di varie tonalità e restava tale fino al 21 marzo quando osservando il calendario si accorgeva della primavera.
Il parallelepipedo contenente la macchina da cucire Singer era quasi uno scrigno delle meraviglie; per aprirlo la mamma spostava con cura la dolomia, fosse mai che cadeva e si rompeva, fosse mai… Il ripiano una volta aperto raddoppiava la sua lunghezza e poggiava sull’anta posta sul davanti a sua volta aperta. L’anta aveva fissato su di essa un ripiano sul quale la mamma aveva messo in bell’ordine i rocchetti conici di filo di tanti colori, un cuscinetto rotondo non più largo di dieci centimetri di diametro sul quale erano infilzati aghi piccoli e grandi in quello che a me sembrava un ordinato disordine. A fianco di tutti quegli aghi un sacchettino in carta della merceria del paese contenente dei gessi da sarta quadrati con incisa una forbice su un lato (la forbice era appunto nome e logo dei gessi da sarta), una bustina di plastica trasparente con all’interno una forbice che sembrava sempre nuova e arrotolato non troppo stretto per non far cancellare quanto impresso sopra un metro da sarta giallo. Alla base del mobile, unita ai lati da due perni di metallo era posizionata una pedaliera sempre in metallo che mi sembrava in realtà sospesa in aria. Dal perno fissato sul lato destro saliva verso la parte superiore un cordino in cuoio dello spesso re di un paio di centimetri. Alle sue estremità aveva due ganci simili ad ami da pesca che si agganciavano alla pedaliera e alla macchina contenuta nel mobile.
Ad anta aperta il mobile rivelava quello che a me sembrava una strana macchina, posizionata al suo interno a testa in giù. Quasi abbracciandola la mamma lo rovesciavo e lo faceva riapparire sul ripiano superiore fissandolo alla struttura del parallelepipedo spostando tre levette nere fissate sul piano. Era uno strano cilindro di metallo nero, dal disegno sinuoso, che terminava all’estremità di sinistra in un piccolo ago. Sulla parte destra circondato dallo stesso cordino che si agganciava alla pedaliera una ruota cromata. Sulla superficie superiore della macchina un piccolo perno, alloggiamento per i rocchetti di filo: era la macchina da cucire Singer modello Anger della mamma.
Sulla pedaliera c’era una scatola rossa, senza loghi. La mamma ogni volta che usava la macchina da cucire copriva la tavola verde con un panno blu sempre ben piegato e privo di polvere o pallini e vi posava la scatola rossa. Una volta aperta la scatola la mamma estraeva dei fogli di carta velina pieni di linee, curve, cifre; erano i carta modelli della mamma. Fogli di carta che indicavano le linee guida per il taglio degli scampoli di tessuto alle sarte. Mamma era sarta e ne aveva di svariati tipi, anche per quegli abiti su misura più particolari di altri. Prendeva una penna e un blocchetto, il metro e il gesso.
“Lo sai che il pacco con il costume arriva fra tre giorni?”
“Davvero? Quindi sono mi arriva in tempo per la festa al parco? Lo sai che poi lo metto anche per la festa che la mamma di Diego ci ha preparerà?”
Gli invidio la capacità di ignorare il calendario e le sue scadenze.
“Certo, me lo ricordo, vedi che l’ho segnato anche sul calendario in cucina? Volendo abbiamo tempo anche di renderlo e aspettarne un altro.”
Niente risposta, New York sotto scacco richiede la massima attenzione, vedo volare per il salotto uno scudo bianco e rosso: è arrivato il Capitano.
Piego un po' il collo mentre la mamma mi passa sulla pelle il metro da sarta, mi solletica la gola.
“Fai il bravo!”
Mi rimprovera ma sorride con gli occhi.
Allungo le braccia, poi le piego quasi ad angolo retto; la mamma muove su tutta la lunghezza degli arti il metro e riporta tutte le mie misure sul suo blocchetto. La stessa procedura la fa per le gambe. Segna tutte le misure scrupolosamente. Prende anche le misure della testa. In effetti per il costume scelto mi serve anche un cappello.
Il costume scelto sarà quello da torero, il più simile a Zorro ovviamente ma al posto della mascherina indosserò una montera, il copricapo ovale del torero. Oltre al gilè con le paillettes, le espadrillas nere e le calze bianche ai piedi.
“Ho avvisato la zia che preparo io il costume anche per tuo cugino. Domani dopo che ho preso le misure anche a Roberto andrà a prendere quello che serve.”
In poco tempo aiutandosi con gli occhiali la mamma aveva disegnato il mio costume sugli scampoli di stoffa portati a casa dalla zia seguendo le misure trascritte sul suo blocchetto. Per tagliare la stoffa usava le forbici solitamente chiuse nel mobile della macchina da cucire. Mi piaceva il suono basso e deciso della lama sul tessuto e il modo in cui la mamma nel farlo mi guardava da sopra le lenti.
Sul tavolo verde il costume scomposto ha preso vita, allo stato embrionale. Lo guardo con lo sguardo a metà fra il curioso e il stupito.
“Adesso vedrai come sarà facile farlo diventare il tuo costume.”
Aspettavo i giorni dispari della settimana perché sapevo che erano quelli in cui la mia mamma era capace di spostare il mondo per fare la polvere e rimettere ogni cosa al suo posto. E in un giorno dispari ha iniziato a cucire assieme gli scampoli per i costumi, sotto lo sguardo dolce del Papa Buono.
Penso che per la festa di Carnevale quest’anno porterò i dolci fatti da zia e indosserò il costume fatto da mamma; penso a quanto manca al Martedì Grasso.
La macchina da cucire la mamma l’aveva fatta posizionare dal papà nel punto più strategico dell’appartamento. Dall’angolo in cui si trovava aprendo la porta di fronte la luce entrava dal salone finestrato e illuminava perfettamente il mobile. La macchina quando mamma la usava era come avvolta dai fili che entravano e uscivano dai rocchetti. Posava le piante dei piedi sulla pedaliera, si assicurava che il cordino in cuoio fosse ben alloggiato nella grande ruota fissata all’interno del lato destro del mobile e con la mano destra infine si appoggiava sulla ruota cromata fissata alla macchina Singer. La mano sinistra teneva i tessuti da cucire assieme ben tesi sotto l’ago. Quando iniziava a cucire sembrava spingesse in avanti il peso; ogni spinta corrispondeva ad uno scatto in avanti del tessuto. Un giro di ruota grande e di quella piccola. La mamma stava cucendo il costume da torero per la festa di Carnevale.
La Singer modello Anger cuciva davvero qualsiasi cosa, dalla seta al denim ma non era la più silenziosa delle macchine da cucire, anzi. Per tutta la durata dell’operazione sembrava di dividere l’appartamento con uno di quei piccoli trattorini da giardino. Anche la foto di Giovanni XXIII in quei lunghi attimi sembrava cambiare espressione.
“Denis vieni a vedere se ti va bene il costume, è arrivato stamattina.”
Con una camminata lontanissima dall’essere quella di un supereroe in erba Denis si avvicina e guarda dentro la scatola sul tavolo. Non mi dice nulla ma gli occhi lo fregano sempre: vedo che è contento.
Lo prova, prova le pose del Capitano, il costume gli sta bene, non stringe, permette di fare tutte le pose tipiche del Primo Vendicatore; bene, anche quest’anno la festa di Carnevale è salva.
Provo davanti lo specchio a figura intera in camera della mamma e del papà il costume di carnevale. Mi veste perfettamente ma non avevo nessun dubbio in merito. Anche la montera mi calza a pennello. La mamma l’ha ricavata da dei cartoncini rivestiti poi di velluto nero. Le cuciture sia del copricapo che del gilet e dei pantaloni sono stati nascosti da tante pailletttes argentate che danno luce al costume e al mantello neri. Sono pronto per “matare” il Martedì Grasso.
Lascio Denis con gli amici al parco con la promessa di rivederci non appena mi chiama. Vedo con la coda dell’occhio uno scudo bianco e rosso volare fra gli alberi. La festa mi pare logico, è già entrata nel vivo.
Non è bellissima la musica, mi pare di ricordare una canzone dei Ricchi e Poveri e un brano di Toto Cotugno, ma quello passava l’antidiluviano dj set della parrocchia. Ci siamo tutti, i miei compagni di classe, quelli di mio cugino e tutti gli altri bambini già visti e festeggiati a scuola. Le pesanti tende in velluto verde che delimitano una parte del boccascena del teatro diventano parte integrante della festa; si sale e si scende dal palco, si ride, si parla, c’è il tempo per farsi fare una foto Polaroid a sviluppo istantaneo dal signor Biagio, ma del nome non ne sono sicuro neanche oggi, vero testimone oculare con la sua macchina fotografica della vita e dello sviluppo della gente del paese. Potevi chiedergli sempre una copia e io la mia con il costume da torero gliela chiesi. E’ ancora a casa del mio papà.
Recupero Denis dalla festa che il tramonto è iniziato; non è più un Carnevale freddo come ai miei tempi anzi, basta coprirsi appena. Il viso di mio figlio è rosso paonazzo. Intuisco abbia corso come non mai ma tant’è, è la loro festa e domani non c’è scuola. Capitan America ritorna dalla battaglia apparentemente vincitore.
Rientro a casa stanco ma contento, in testa persi fra i ricci credo un sacchetto intero di coriandoli mi fa solletico. La mamma mi blocca all’ingresso, mi spazzola la testa e mi fa scrollare via tutti i rimasugli della festa di Carnevale “che se li porti in casa non escono più e gli spazzo via fino a Natale!”.
L’indomani devo anche andare a scuola, guardo la dolomia nuovamente sopra il parallelepipedo singer. Ha sempre il suo color grigio. Chissà domani che tempo farà.
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