Un weekend di ottobre

 Arriva finalmente il mio week end di libertà, due giorni due per staccare la spina dal lavoro, dal Natale 2023 già arrivato prepotente in negozio. Due giorni che ci sarà il sole, un po' di tempo per gli affetti senza guardare l'orologio (mia personale e brutta abitudine), per cercare di prendere in mano vecchi appunti per dare vita al nuovo libro, finire un vecchio libro con gli angoli arricciati dal tempo; insomma, due giorni per me.

Li inizio col caffè e il giornale ovviamente, come sempre, che mentre aspetto il fragore tranquillizzante del caffè che sale guardo dal terrazzo il giorno che arriva. Routine, si chiama routine fatta di due cose piccole e semplici ma che mi piacciono tanto.
Apro il giornale on line e la cosa che mi colpisce subito è la barra in alto nella pagina, appena sotto il nome del quotidiano. È di un rosso inquietante e lampeggiante, dice in maniera altrettanto inquietante e lampeggiante "in aggiornamento".
Leggo e mi ritrovo catapultato con i ricordi ai miei giorni dell'infanzia, quelli in cui la prima informazione veniva da "Uno Mattina" sulla Rai, non da internet H24. E forse era meglio perché venivamo lo stesso informati ma non così velocemente.
La news parla di Israele, non delle ricorrenze vicini dello Yom Kippur o del Sukkot come potrebbe essere visto il periodo (ricorrenza dell'espiazione la prima e del raccolto autunnale la seconda, quindi da settembre ai primi di ottobre) ma di missili, ostaggi, kibbutz e morti. Ecco, ci risiamo mi viene da pensare.
Cinquant'anni fa lo Yom Kippur per noi occidentali ha significato Guerra vinta da Israele contro Egitto e Siria coalizzati. Da lì in poi missili e guerre e sassi (le Intifada) hanno caratterizzato quella parte di mondo chiamata Medio Oriente e che sempre noi occidentali lontani da strategie politiche ed economiche abbiamo sempre visto in fiamme, in lotta. 
Ho cinquant'anni anche io e non ricordo un solo giorno in cui Israele e Palestina abbiano vissuto davvero in pace.
Certo, sono discorsi ampi, profondi, forse che contengono più di una motivazione senz'altro, quelle che a noi che leggiamo non vengono dette, raccontate. Sono discorsi che questa mattina non ho la pretesa di risolvermi ma mi informo, questo si, sul perché succede, sul perché succede proprio ora e proprio lì. 
E mi ricordo di altri paesi vicino ai due rivali odierni coinvolti in tumulti, attentati e guerre dalle quali, è palese il risultato, non sono mai stati capaci di riprendersi o forse nessuno ha hai avuto l'interesse reale a farli riprendere. Per anni ci hanno spiegato, con prove purtroppo certe, con confessioni e ammissioni, che in Medio Oriente era forte la mano delle organizzazioni terroristiche che per noi, per me almeno, avevano nomi talmente strani e misteriosi da risultare quasi affascinanti, ad esempio Settembre Nero. Poi ricordo fra un lancio di pietre quasi continuo verso le autorità (le Intifada palestenisi), la mia personale difficoltà a capire perché la Palestina fosse una specie di zona chiusa, limitata e con la vita dei suoi abitanti obbligata ad essere vissuta all'Inter degli stessi confini. Mi è sempre sfuggito il perché non potessero vivere in Israele liberamente. Così come mi è sempre sfuggito il perché nessuna delle parti in causa (aspetto comune questo a tutte le battaglie e guerre combattute in Medio Oriente) accettasse il semplice concetto di convivenza come noi occidentali. Questo dubbio mi ha sempre accompagnato ma crescendo mi è sempre apparso chiaro che dietro ogni ribellione, ogni conflitto, in determinate aree geografiche del mondo c'è sempre una mano straniera che ne tira le fila, spesso sono sempre le stesse mani che spostano su altri territori i propri conflitti e problemi, perché il mondo così com'è deve reggersi su equilibri precari e non sulla stabilità. Oggi che leggo di centinaia di morti in Israele e templi al tempo stesso che la conta salga e aumenti pesantemente anche sul versante palestinese di Hamas capisco che questi mondi ha bisogno della guerra e non della pace, meglio se lontano da noi, in angoli del mondo che noi possiamo seguire da casa, su internet. Israele e Palestina a ruota o forse assieme sarebbe più corretto, di Siria, Niger, più in là Taiwan, un po' più su l'Ucraina e la Russia e altri che non ricordo sparsi nel continente africano ufficialmente abbandonato dai paesi che lo colonizzarono ma supportato da altri paesi nei colonizzatori. Perché? Per le immense risorse naturali sulle quali è adagiato il continente nero, le stesse che interessano ai paesi più potenti del mondo attuale, caso strano gli stessi che inviano armi o dichiarano guerra. 
Questo weekend ho capito che in cinquant'anni il mondo è rimasto lo stesso, affamato di guerra, privo di politiche di pace non perché incapace di pensarle e produrle ma perché non c'è la volontà e l'interesse di pensarle e produrle. Tolta la pace rimangono la guerra e le armi, industrie in espansione continua, aggiornate, di cui poco di sa o si parla.
E mentre cerco di bere il caffè e convincermi che devo staccare la spina ripenso ad un vecchio film con e di Alberto Sordi del 1974, caso strano l'anno in cui sono nato, "Finché c'è guerra c'è speranza", in cui un mercante d'armi finiva per avidità coinvolto in buona parte delle guerre africane. 
E non è cambiato nulla.


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