Una scatola di biscotti

L'uscita della galleria termina su due panchine di legno scuro e metallo, posizionate sotto al grande tiglio che ne delimita la proprietà. 
Le giornate, il passare del tempo, lo scandiscono proprio le due panchine e i loro occupanti. Pendolari in attesa del bus la mattina, studenti che aspettano loro coetanei prima di scuola, anziani a metà della mattina che si ritrovano lì "perché per andare o tornare dal centro in galleria ci devi passare", badanti, altri studenti, perfino baby gang nel pomeriggio, prima che faccia nuovamente buio.
In tutta questa ridda di umanità diversa l'unica costante è la presenza di persone in difficoltà nell'affrontare la vita di tutti i giorni. Quasi sempre uomini, di mezza età, quelli cui la vita ad un certo punto ha girato le spalle.
Solitamente sono tre, arrivano ad orari diversi, parlano un po' fra loro, con chi è seduto sulla panchina in attesa di altre persone o in pausa dai propri impegni. Due parole, un saluto, si ricomincia. Ad attendere, ad osservare, spesso a camminare.
Li vedo tutti, li conosco tutti ormai; per certi aspetti fanno parte della mia vita quotidiana, presenze costanti nel lavoro e nel privato.
A volte entrano in negozio a prendere una bottiglia di acqua, altre volte solo un po' di fresco  quando l'estate sotto il tiglio è pesante, altre ancora un po' di caldo quando li verno arriva. Pause brevi, un saluto, un "come stai?" reciproco. 
Le panchine delimitano anche l'area dove gli esercenti che hanno le loro attività all'interno della galleria posizionano carta, cartone, sacchi contenenti plastica e indifferenziata per i netturbini quindi almeno quattro volte a settimana si è tra tutti un po' più in contatto con queste persone, non fosse altro per il solo fatto che quasi i transpallet e i roll sfiorano le panchine.
C'è il ragazzo austriaco incuriosito dalle frasi in danese sulla maglietta che ne approfitta per parlare un po', c'è l'ex operaio dell'est dall'aspetto burbero ma che sorride quando ti saluta e ti parla e ce n'è un terzo, ultimo arrivato in città, che parla poco ed osserva molto, forse intimorito dai ritmi della città.
I capelli sono lunghi e ricci ingrigiti dal tempo. 
Gli occhi azzurri nascondono a fatica uno sguardo infantile. 
Non so il suo nome, non l'ho mai chiesto quasi che il salutarsi reciprocamente ogni giorno fosse sufficiente.
Ha un viso da Paolo, Marco, forse Stefano, a cui qualcosa nella vita è andato storto. Mi sono accorto che parla più volentieri il friulano, chiaramente la sua lingua madre. E quando parla è come se urlasse sussurrando. Io gli chiedo come va, se aspetta il bus e lui risponde, sorride, mi fa un complimento in lingua madre, o marilenghe come si dovrebbe dire, e attraversa la galleria coprendosi quasi la bocca e scomparendo nell'uscita che dà sulla piazza vicina.
Scompare davvero, rimane il posto vuoto sulla panchina per giorni prima che riappaia, anche adesso che è autunno, che la prima aria fredda del mattino può rendere le panchine un po' invivibili.
È metà novembre, Natale nei negozi è arrivato quando il sole era ancora alto e io svolgo la mia routine quotidiana come sempre. 
"Senti, posso passare in galleria?"
Mi volto verso la persona che mi parla mentre brontolo con una vetrofania che non vuol saperne di attaccarsi almeno un po' dritta.
È lui, penso il mio coetaneo dai capelli ricci.
"Certo, che domande, perché non dovresti?"
Io glielo chiedo quasi sorridendo per quella domanda così strana. Almeno per me.
Lui abbassa gli occhi azzurri ora annacquati.
"Sai, è una settimana che non mi faccio la doccia, magari do fastidio alle persone..."
I puntini che rimangono sospesi alla fine della sua frase pesano più dell'acciaio.
Scavo veloce dentro di me per mettere insieme una risposta veloce senza ferirlo e non sono sicuro di esserci riuscito ma non mi aspettavo una risposta così.
"Guarda, io ho scaricato i pallet dal camion tutta la mattina, magari si lamentano di ne e non lo so!"
Sorride, mi dà una pacca delicata sulla spalla e rispondendomi si allontana verso l'altra uscita.
"Tu ses un brâv frût! Sei un bravo ragazzo!"
Lui sparisce, io appiccico la vetrofania e rientro. Ho il negozio da allestire, la giornata sarà lunga ma dentro mi rimangono più domande. Alle quali so che non troverò risposta.
I soliti perché verrebbe da dire, ma non hanno tutti le stesse risposte, le stesse cause e gli stessi effetti. Fanno tutti ugualmente male.
Il turno finisce con il cielo buio alle cinque del pomeriggio, i lampioni illuminano le strade, i riflessi delle vetrine mettono un po' in penombra le panchine sotto il tiglio. 
Uscendo lo vedo lì seduto, quasi nascosto da una sciarpa forse verde, forse grigia come i suoi capelli. Guarda avanti, forse le vetrine, i libri che vi sono esposti, forse la roggia che stasera scorre più lenta del solito, sicuramente è perso nei suoi pensieri.
Rientro in negozio, passo alla cassa, saluto nuovamente la collega e riesco. Ho una scatola in mano, lo saluto con l'altra mano. Ricambia divertito come se non aspettasse altro. 
Gli porgo la scatola che ho in mano; ha dei disegni, è bianca e rossa come il tema di questo Natale.
"Senti, siccome è Natale spero che dei biscotti ti possano piacere, magari ti addolciscono un po' la giornata."
Poca cosa, una cosa forse inutile.
Mi guarda con gli occhi grandi, sorpresi.
Guarda la scatola mentre gliela porgo. Sorride.
"Tu ses proprit un brâv frût!"
Sorrido anche io, non sapevo se avrebbe fatto piacere o meno il pensiero.
"Ti offrirei da bere ma non ho soldi, guarda, mi hanno dato un euro prima..."
Apre l'altra mano e mi mostra l'unica moneta che ha.
"Senti io ho finito, ti va un caffè?"
Abbassa lo sguardo e mi dice che non se la sente di entrare in un locale, teme le reazioni delle persone.
Capisco, li stringo la mano e lo saluto.
Si qualcosa di lui, del suo presente tormentato perché la città non è una metropoli, le voci si muovono veloci, fortunatamente non solo quelle cattive. Non si ancora come si chiama, non so se glielo chiederò ma so quanto basta.
Entro nel bar vicino ordino, pago, esco.
Mi siedo, apro le bustine di zucchero che piano poi sparisce dentro la schiuma del latte, con la paletta di legno mescolo il cappuccino.
Quando penso sia pronto mi giro.
"Allora, alla salute!"
Un cin cin cin un bicchiere di carta.
Bevo il mio cappuccino seduto sulla panchina sotto il tiglio con Paolo, Marco o Stefano. Un po' di calore gli può servire sicuramente. Tiene sulle ginocchia la scatola di biscotti mentre sorseggia la bevanda calda e parla. Per la prima volta mi parla liberamente. Mi racconta un po' di cose, di come sia cambiata la vita all'improvviso, quando non lo crede a possibile. Mi racconta di Udine, di come gli piace.
Finito il cappuccino mi dice che deve prendere la corriera e rientrare.
Lo saluto a mia volta e lo guardo sparire nuovamente. So che domani o fra tre giorni lo rivedrò, che mi saluterà con la mano.
Rientro verso casa senza capire come sto davvero, pensando che magari l'ho messo in imbarazzo e non aveva nessuna corriera da prendere ma solo un'emozione da non farmi vedere.
Penso che basta poco, davvero poco per perdere tutto, per regalare un sorriso.
Poco.

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