Risvegli dopo Festival

Mentre si spengono le luci sul Festival di Sanremo ci rendiamo conto che la nuova settimana ci troverà svegli sempre allo stesso punto, circondati da venti di guerra che sembrano non finire più, da flussi migratori in ascesa preoccupante, da un mondo politico che è tutto e il suo contrario perso in Patti di stabilità instabili, ministri che promettono A, urlano B e forse sottoscrivono C. 
È un risveglio che non porta buone nuove, che il mattino questa volta non ha l'oro in bocca. Non ha che l'odore della polvere da sparo, del carburante che brucia, l'urlo spezzato di ambulanze e bambini, alternati. 
È un risveglio fra le brutture del mondo, fra chi fatica ad arrivare a fine mese, fra chi fatica anche a vivere da stipendio a stipendio anche se c'è chi insospettabilmente afferma che da oggi in poi si potrebbe fare (e non è Gene Wilder...), con che mezzi e con chi e per chi non è dato sapere.
Sono risvegli tutti uguali da due anni a questa parte, che si parli di Russia, di Ucraina, Israele, Palestina, Mar Rosso, Libia, Taiwan. 
Il mondo ha infilato una direzione buia, ostile, diplomaticamente complicata, prova ne siano i salti mortali fra le democrazie del mondo, fra le democrazie d'Europa mai così scollate fra di loro e lontane dai loro principi.
Dopo Sanremo, dopo il Festival (che continua ad essere seguito, ad essere visto e vissuto semplicemente perché regala dieci giorni fra prima e dopo in cui si può provare a pensare con leggerezza e abbozzare quei sorrisi destinati ad andarsene lontani), ci si ritrova fra le mani note diplomatiche che quasi sfociano in incidenti altrettanto diplomatici. Perché? Perché dal palco, da questo e da altri, non si può invocare la pace, non si può premere il proprio dolore, la propria avversione.
Note, veline, di signori e signorotti altrimenti ingessati e persi in altri pensieri. Convinti che invitare questo o quel rapper, cantante, artista, giovane e di successo allontani la libertà di esternare il proprio pensiero e il proprio dissenso.
Errore, errore madornale.
Ci si sveglia più vicini al cantante che al diplomatico o al colletto bianco perché per l'uomo comune il pensiero del cantante è lo stesso.
E l'uomo comune è stanco anche di interessarsi alla politica altrui che invoca guerre, ritorsioni, congiure e non guarda invece in casa propria (ogni riferimento a Trump è voluto).
Ci si sveglia fra mille brutture, mille incertezze di un mondo altrettanto incerto.
Col rumore dei trattori che va lì tanto nuovamente verso i campi mentre a Roma si fa a gara per promettere, rassicurare, forse impaurito dal letame lasciato sui gradini di Berlino e Parigi.
Ci si sveglia, ed è già molto.


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